La scorsa primavera, durante i mesi algidi di isolamento, le parole di Nick Cave sono arrivate come una voce fuori dal coro: mentre molti artisti si immergevano in un plasma digitale di streaming e presenze online di vario genere — a volte con risultati lodevoli, altre annegando in un turbine di sovraesposizione mediatica — ecco un passo indietro, la scelta di fermarsi e osservare. Non si è trattato di una fuga dalla realtà (come ho scritto in un articolo su Rolling Stone, ndS), bensì di una rivelazione illuminante: «Eccoci costretti a isolarci, a restare vigili, a stare in silenzio».
Qualche tempo dopo, svanita una temporanea luce, ansie e timori nascosti sotto strati di oblio sono riaffiorati, l’arazzo sbiadito ha iniziato a scivolare via, scoprendo una parete nuda e ruvida a incorniciare le ultime settimane. Qualcosa manca, pur in un ritrovato senso di libertà, tra limitazioni e problemi. Ciò che manca è l’inatteso. Manca uno scorcio di normalità inaspettata che infranga persino le vite più ordinate e ordinarie, un sorriso all’edicola o il riflesso dorato sulle facciate di un grattacielo dopo un temporale. Mancano gli attimi fugaci e imprevedibili di cui sono costellate le giornate, ogni qualvolta muoviamo un passo al di fuori della porta d’ingresso. Manca l’imprevisto generato dal confronto, quel flusso di energia che è uno scambio continuo con l’altro, in ogni attimo di esistenza comune, come durante un concerto, nel donarsi vicendevole tra artista e pubblico. Manca il senso di aggregazione, quel magnete comunitario che fa sì scaturiscano nuove idee, si generi una forza inedita in grado, per parafrasare Patti Smith, di invertire persino l’orbita del pianeta. Manca la spontaneità, a rendere vivi e presenti, per quanto fragili.
Non so quale sia il modo più opportuno per affrontare tutto questo vuoto, forse un compromesso tra il lanciarsi casuale nella mischia o il rintanarsi in un angolo, tuttavia so bene cosa sia in grado di piegare il tempo a suo piacimento, creando una dimensione nuova: la musica.
E, tra meno di una settimana, sarà il giorno della Prima alla Scala di Milano, un luogo dove, da sempre, proprio la musica non è solo bellezza pura, ma si fa pensiero sociale, politica. Un luogo dove l’imprevisto e il confronto accadono, dove il presente diventa storia viva e il pensiero insorge. Quest’anno tutto sarà diverso, inedito — con un teatro nelle case di tutti grazie a digitale, radio, tv e, soprattutto, uno spettacolo creato ad arte per tali mezzi e linguaggi — e credo che l’occasione sia perfetta per riflettere: credo sia possibile afferrare questo tempo e ricordare come la volontà, sempre, possa essere più forte del banale abbandonarsi inerti al flusso degli eventi; come il modo che abbiamo di reagire, opporci, pensare (e ascoltare) sia vita.
Foto della Library of Congress (Unsplash)
L’ascolto della settimana
Merismo, Le Bandesonore (autoproduzione, 2020)
Quattro lunghe tracce, composizioni strumentali, che scrivono una storia declinando le personali visioni e inclinazioni di ciascun musicista, da Bach ai Notwist, sfiorando Charles Mingus. Ecco allora il canone di Ostinazione, che si origina da tre note per schiudere un intero universo sonoro, oppure Resistenza, un distillato funky di una ventina di minuti. Avviso: non è un disco immediato, ma basta lasciarsi andare per essere avvinti dalla sua forza.
Eccoli, su Spotify.
Un paio di letture
Vita meravigliosa, Patrizia Cavalli (Einaudi, 2020)
La poesia è musica, per sua stessa natura; la poesia è il luogo dove parole e suono diventano un corpus unico. E Patrizia Cavalli effonde il suo mondo intriso di ossessioni, fantasmi e grazia in un’armonia di versi senza tempo, marchiati con il sigillo dell’universalità. La poesia, ancora, è donna, poiché in essa c’è l’interezza del mondo, l’abbraccio di una forza creatrice primordiale. L’intuizione si accende già soffermandosi sui versi in copertina: “Cosa non devo fare / per togliermi di torno / la mia nemica mente: / ostilità perenne / alla felice colpa di esser quel che sono, / il mio felice niente.”
Vita meravigliosa sul sito di Einaudi.
L’uomo con la vestaglia rossa, Julian Barnes, traduzione di Daniela Fargione (Einaudi, 2020)
La penna di Julian Barnes (tradotta da Daniela Fargione) racconta la storia del medico Samuel-Jean Pozzi e della Belle Époque intera, come scrive Livia Manera su La Lettura del Corriere, aggiungendo che lo scrittore “usa lo scetticismo dello storico e la disinvoltura del professionista navigato per comporre un’opera sinfonica che è un susseguirsi di fughe e divagazioni”. Pozzi è stato un innovatore, un gentiluomo decadente, una rockstar ante litteram dal successo ecumenico e, avvolto nella sua veste scarlatta, più attuale che mai.
Sul sito di Einaudi, Barnes & Pozzi.
DAL BLOG
Barbara Rubin, l’alchimia narrativa di The Shadows Playground
Ascoltare un disco, come leggere un libro, è affidarsi a una storia, lasciarsi guidare nell’ignoto. Così accade con The Shadows Playground di Barbara Rubin, album dove un amalgama di colori strumentali dissimili, eleganza dei versi, arrangiamenti puntuali danno vita a un racconto avvolgente.
Vuoi condividere questa newsletter o inviarla a qualcuno? Ecco qua:
E tu, come stai? Cosa leggi, ascolti, combini? Se hai consigli, storie da raccontare, pensieri sparsi, se non dormi: scrivimi.
Nel mentre, grazie.