Il sole è tramontato senza preavviso, il bianco lattiginoso del cielo si è abbandonato alle tinte più scure e, in pochi attimi, ecco il mio riflesso alla finestra arrogarsi il proprio spazio, cancellando gli abeti e i tetti delle case, il cachi coi suoi frutti vivaci e insolenti là in fondo. Nevica da stamattina, una neve fitta e pesante che ha fermato il mondo. Per lo meno, quello che si distingue da qui.
Il primo ricordo che ho della neve risale a quel 1985 incastonato nei ricordi di tutti, nel titolo del terzo disco dei Bluvertigo e nelle foto di una Milano (e non solo) ovattata nel bianco, di mio padre che razzola a terra nel tentativo di costruire un pupazzo, di quei sentieri scavati in giardino attraversando i quali, la me cinquenne, scompariva. La neve sono scivoloni sul ghiaccio di Alexander Platz nei gelidi inverni berlinesi, la stazione della mia città che si trasforma in quella di Jasenski descritta da Lev Tolstoj, sì, in Anna Karenina.
Ora la neve è immobile, quasi arrogante, vittoriosa. Le mura di casa non sono più difesa che abbraccia, focolare che accoglie, bensì uno spazio di assenza e mancanza: la mancanza di vivere il mondo liberamente, programmare, sperare, svegliarsi l’indomani per affrontare un viaggio nel candido e lasciare le proprie orme in giardino. La neve, quest’anno, si posa su una vita nuova, ancora indefinita: non più quella simile all’ultimo inverno, non ancora conscia del futuro prossimo e incerto.
Il luogo dove la osservo cadere, incessante, mentre i miei ellebori (fioriti, tornati, dopo mesi di silenzio) cascano sotto il peso del ghiaccio, è quello per anni trascurato, un po’ vituperato, vissuto di passaggio; ora è un grembo, affollato di pensieri.
Ciò che so è che, per quanto io sia nel posto dove mi sento più al sicuro e che amo, scrigno di ricordi preziosi, dove si muovono ancora i riflessi delle anime che lo hanno conosciuto, non vedo l’ora di scappare là fuori. E provare ancora quella sensazione dell’arrivederci, la gioia del rincasare, è ciò che attendo, con una speranza ostinata.
Foto di Grace Dadson (Unsplash)
L’ascolto della settimana
Fetch the Bolt Cutters, Fiona Apple (Epic, 2020)
Otto anni di (pressoché totale) silenzio, dopodiché eccolo qui: il capolavoro. Fetch the Bolt Cutters è il quinto album di Fiona Apple, registrato dalla cantautrice tra le pareti di casa, ad afferrare immediatezza espressiva e scavare nell’introspezione più profonda, con al fianco musicisti dal talento enorme, tra storiche collaborazioni e nuove conoscenze. Fiona Apple cesella i dettagli, scivola sui tocchi jazz, sprigiona la sua voce tra energia e sospiri, imprime la sua firma, inconfondibile, eppure al contempo prosegue nella sua personale ricerca artistica e catarsi umana. Un disco frenetico e percussivo, come lo ha definito la critica del New Yorker, Emily Nussbaum. Per ribadire il concetto, un capolavoro.
Fetch the Bolt Cutters è su Spotify.
Una lettura
L’arte della gioia, Goliarda Sapienza (Einaudi, 2008)
È il 1° gennaio del 1900: con il nuovo secolo, in terra povera e mondo ostile, nasce Modesta. Questa è la sua (immaginaria) autobiografia, che scivola tra le pieghe della storia e racconta di un’esistenza straordinaria. È un racconto dal destino travagliato, che ha conosciuto il rifiuto degli editori e l’oblio, per essere pubblicato poi postumo alla fine degli anni Novanta; una penna affilata e raffinata che non solo disegna, ma scolpisce un personaggio magnifico.
Il libro è sul sito di Einaudi.
DAL BLOG
Deutschland 83, la colonna sonora della serie tv
Due anni fa, ho scritto della colonna sonora di Deutschland 83, una delle mie serie tv feticcio (guilty pleasure: la guardo in tedesco). Nel corso di questi due anni, è stato uno degli articoli più ricercati e letti, in particolare nelle ultime settimane, a seguito della messa in onda italiana su Sky Atlantic della terza stagione, Deutschland 89. Cominciava tutto così: “In piena Guerra Fredda, prima che le radiazioni di Chernobyl se ne fregassero della Cortina di Ferro, qualcosa contamina oriente e occidente: la musica.”
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