Non ho mai avuto paura dei fantasmi. Credo che il problema siano i vivi, con le loro debolezze e volubilità, non certo gli spiriti. Ho sempre associato i fantasmi a qualcosa di poetico: il ricordo di un passato che serpeggia tra noi, la volontà inossidabile di rimanere ancorati al dono più prezioso, la vita.
Pertanto, sin da piccola, le storie di spiriti che si palesano durante il Natale mi hanno sempre affascinata, tanto quanto il mescolarsi di sacro e profano, il desiderio tutto umano di credere, narrare, rendere tangibile — foss’anche con le parole — ciò che non lo è.
Fantasma deriva dal greco phántasma, da phantázein, apparire; un suo sinonimo, spirito, dal latino spiritus, a indicare il soffio, il respiro. Quando arriva in Italia, nel Duecento, la parola è declinata al femminile e, nel corso dei secoli, ha dipinto non solo un’entità ultraterrena, ma anche qualcosa che, pur senza sostanza, ha voce, suscita emozioni.
Con il passare del tempo, e non intendo nella storia della letteratura, quanto piuttosto per me stessa, i fantasmi sono diventati un simbolo. Il simbolo di “quello che non c’è”, per parafrasare Manuel Agnelli, ma fa sentire vivi. E quest’anno, in particolare, i fantasmi sono musica.
Uno spettro gentile emerge da un tempo all’apparenza remoto, ricorda i giorni in cui una manciata di note sono deflagrate nella solitudine, ricorda il potere di chi, pur nel crollo di ogni certezza, ha dato vita a opere di una bellezza limpida e struggente. Questo spettro è il futuro che non riusciamo a immaginare, che vive in bilico tra l’urgenza di assorbire ancora musica dal vivo, infrangendo gli schermi che la imbrigliano, che sta lì in un biglietto elettronico pronto per la prossima primavera. E il fantasma sussurra di aspettare, avere fiducia.
Ed è a questo punto che riemerge una frase scritta decenni fa da Giovanni Lindo Ferretti, in un brano dei CCCP (ripreso poi dai CSI in una lucente versione acustica): “Assomiglia all’ingenuità la saggezza”.
Foto di William Iven (Unsplash)
Le canzoni del giorno
Il senso delle cose, Morgan (autoproduzione, 2020)
È una delle cinque canzoni scartate da Sanremo 2021 e ricorda un precetto inossidabile: la musica è il cuore vero, oltre le polemiche, i pettegolezzi, la sterilità del tutto. Un brano di una compiutezza avvolgente, che attinge dalla tradizione cantautoriale più raffinata (e cara all’autore) per spingersi ancora più in là, denudarsi, raccontare il senso profondo dell’essere e del creare. Grazie, Morgan.
Il brano è stato pubblicato su tutti i social di Morgan, questo è il link a YouTube.
Sogno, Dente (Ghost Records, 2020)
Scivolata via dal disco L’amore non è bello, il secondo di Dente, “semplicemente perché non ci stava”, sostiene lui, Sogno è una traccia dal destino intricato di chi non si arrende. Anni fa, anziché andare persa nei meandri di qualche archivio, è finita in una compilation, La leva cantautoriale degli anni zero, un compendio di bellezza ancora splendente, tra Brunori Sas e Amor Fou.
Perché parlarne dopo un decennio? Perché, da oggi, ritorna, da ascoltare in streaming.
Una lettura
Racconti di Natale, Charles Dickens, traduzione di Emanuele Grazzi (Newton Compton Editori, 2017)
Il doppio volto dei classici è che, in quanto tali, oltre a essere letture imprescindibili spesso giacciono abbandonati in una libreria, talvolta si dribbla persino la lettura sui banchi di scuola, con un provvidenziale riassunto scovato da qualche parte. In questa edizione, oltre al classico Un canto di Natale, sono raccolti diversi racconti di Charles Dickens, come Il grillo del focolare e Il patto col fantasma, tutti in edizione integrale. Nota a margine: in epoca vittoriana, strenne e fantasmi danno vita a sodalizi grandiosi (e le più talentuose a scriverne sono le scrittrici, ma questa è un’altra storia).
Ecco il libro sul sito di Newton Compton.
DAL BLOG
Ma Rainey, perché è fondamentale (ri)scoprire “la madre del blues”
La storia di Ma Rainey, quella vera, che si intravede nell’opera teatrale e nel film Ma Rainey’s Black Bottom, è la storia di una comunità, di una donna, del potere salvifico della musica, di come l’arte stessa sia parte attiva della società e diventi un atto politico, della costruzione identitaria, della coscienza di sé e della rivendicazione di libertà fondamentali. Una lezione che, a quasi un secolo di distanza dal debutto discografico della madre del blues, non sembra poi così chiara ed è bene, come dire, ripassare.
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