Qui, nel mio personale scampolo di tundra, quando la neve cade, i pensieri si affastellano. In realtà, lo fanno più spesso di quanto dovrebbero e nelle ore più impensate, tuttavia è come se il freddo e il ghiaccio contribuissero a fissare nel tempo alcuni dettagli. A rifletterci bene, da un anno la scena non è cambiata granché: un lungo inverno dell’anima.
E la fine dell’anno, per consuetudine, porta con sé diluvi di ovvietà e spunti meravigliosi, specie quelli rivelati dalle persone più acute che ho intorno, mentre io sto qui e mi limito a pensare.
A pensare che, dallo scorso febbraio, ho visto abissi di solitudine e insicurezza trasformarsi, con ferocia, in un eccesso di fame digitale, alla ricerca spasmodica di ciò che è venuto all’improvviso a mancare: il contatto. Ho visto, troppo spesso, confondere l’essenza con la posa, lo scopo con il mezzo, il messaggio con l’apparenza, l’imposizione col confronto. Mai come prima, ho preso le distanze da tutto questo per focalizzarmi su qualcosa di diverso, più coinvolgente: ho visto la creatività sgorgare da nuove fonti, i più ostinati guardare le macerie e provare a fare ordine, in qualche modo, e diffondere nuove idee. Ho visto il sentimento comune del bisogno dell’altro erompere, spesso in modi inediti e nei tempi più imprevisti. Ho visto tanti afferrare la mano degli smarriti e, smarriti a loro volta, affidarsi all’altro, così come il vuoto lasciato quando ciò non è accaduto.
Forse è stato il tempo di re-imparare ad aspettare, a cercare la sostanza dietro le maschere. Per me, è stato l’anno in cui, mentre tutti si affannavano a rincorrere qualcosa, ho taciuto, molto e per rispetto — anche se controvoglia —, e mi sono fermata a riflettere e osservare, ascoltare. L’ho fatto spesso, anche in uno dei miei luoghi dell’anima, dove i grattacieli si stagliano sopra i palazzi storici e la gente sciama per le strade: arrivo lì e mi fermo, alzo gli occhi dove nessuno guarda.
In qualche modo, tutti abbiamo scoperto di essere meno speciali di quanto pensiamo eppure altrettanto unici, tutti abbiamo sofferto per voli cancellati, lo spegnersi della musica, lo sparire delle vite, le difficoltà di ogni giorno, a volte insormontabili. E, se la privazione del quotidiano — di quelle piccole cose confortevoli e scontate del nostro privilegio — è stata una ferita da rimarginare tra le mura di casa, il peggio è arrivato con il nuovo inverno, con il ritorno al confino, il mancare della speranza, l’impossibilità di progettare un futuro concreto.
Foto di Brian McGowan (Unsplash)
Insomma, è stato l’anno del silenzio e dell’attesa, l’anno in cui in molti hanno capito che mostrare le proprie fragilità è sintomo di forza. In questo senso, forse l’ostinazione può servire a guardare nel baratro senza precipitarci dentro. Forse è bene ascoltare l’ego, ma è un dovere agire col cuore, perché così deve essere e così è giusto che sia, a costo di qualsiasi rischio e giudizio e dolore. Perché, nonostante le ferite, ne vale la pena, sempre.
Guarda lontano, guarda oltre, mi dico. Ascolta, sempre. Rifletti sulle parole e sui gesti, sulle conseguenze che possono avere, anche se chi ti sta intorno non lo fa. Arrogati il diritto di essere stanca, di spegnere il telefono e chiudere la porta, per poi tornare, e comprendi le ragioni di chi fa altrettanto. Continua a credere nella forza e nella gentilezza, indissolubili, e a rialzarti. Lascia che da questo involucro di entusiasmo mal gestito e groviglio di pensieri nasca qualcosa di buono e resti lì, per essere accolto dagli altri.
Ricordo quella sera di marzo, la strana sensazione: uscita dal giornale, il vento spazzava la città; ho guardato i grattacieli illuminati come se li vedessi la prima volta, come se non li avrei visti più per lungo tempo. Un paio d’ore dopo, in diretta televisiva, ci sarebbe piombato addosso l’isolamento. C’era una luce sorprendente, quella sera. Ed è simile a quella di oggi, ostinata persino quando la nebbia è impaziente di avvolgere le case intorno. C’era luce anche nei giorni in cui non era possibile uscire di casa, durante i quali la natura sembrava farsi beffe di noi, affacciati alle finestre. Com’erano quei versi di Anthem, scritti da Leonard Cohen? “C’è una crepa in ogni cosa, ed è da lì che entra la luce”.
Buon anno, e grazie.
Le foto dell’anno
Un consiglio per ripercorrere i momenti più importanti degli ultimi mesi: lo speciale Le foto dell’anno 2020 del Corriere (basta cliccare sull’immagine, una foto di Miguel Medina/Afp scattata sui Navigli di Milano, per scoprirle tutte, da gennaio a dicembre).
Ascolti e letture
Ascolti e letture torneranno copiosi con l’anno nuovo (spoiler: il primo invio sarà uno speciale). Per il momento, ecco lui:
Bruce Springsteen, Letter To You
Vuoi condividere questa newsletter o inviarla a qualcuno? Ecco qua:
E tu, come stai? Cosa leggi, ascolti, combini? Se hai consigli, storie da raccontare, pensieri sparsi, se non dormi: scrivimi.
Nel mentre, grazie.