Non sono una grane ammiratrice della nostalgia, a dirla tutta, in questo periodo specialmente. Mi piace pensare — in un modo un po' ingenuo e allo stesso tempo, forse, supponente — che tutte le scelte fatte in passato conducano, se non nell’universo migliore possibile, di sicuro in quello che deve essere. E sarebbe troppo facile, persino sciocco, recriminare a posteriori frasi, decisioni, strade, semplicemente perché nessuna di queste esiste.
Credo tuttavia che il passato abbia molto da dirci e insegnarci, se abbiamo la pazienza di starlo ad ascoltare.
Qualche giorno fa, è arrivata la conferma di una notizia: il Twiggy ha chiuso le sue porte. Il Twiggy, per chi non lo conoscesse, è stato un piccolo club in quel di Varese, nato nel 2009. Tra le sue pareti, al bancone del bar così come nella sala concerti al piano inferiore, sono letteralmente cambiate delle vite. Ricordo i pellegrinaggi da Milano, dai paesi vicini, a volte anche da più lontano, di proseliti, curiosi, musicisti, amici di vario genere richiamati dalla musica. Già, perché nel suo cartellone c'è stato di tutto: artisti che arrivavano dall’Italia, da mezza Europa, da città sperdute negli Stati Uniti. E conquistavano.
I miei ricordi, rispetto a quelli di chi, al Twiggy, ha respirato ogni minuto, sono briciole. Eppure, anche tali briciole sono fondamentali, perché tradotte in risate, entusiasmi, applausi, vodka lemon, fischi alle orecchie, balli scomposti, casse in quattro, quinte distorte e tanto altro. C'è stato un periodo della mia vita, tra la fine degli anni Novanta e poco tempo fa, che ricordo così: luci soffuse, musica dirompente, accenti stranieri. Un periodo che non tornerà, ma che custodisco come meraviglioso e di cui il Twiggy è stato uno dei luoghi culto, come si dice, vissuto con coloro che da sempre sono compagni di viaggio, nella gioia e nella disperazione.
Oggi, la musica dal vivo sanguina e vive di un futuro incerto, langue cercando nuovi linguaggi, piegando alla sua forza le risorse infinite della tecnologia, come ha sempre fatto e come continuerà a fare. Questa sofferenza, questa mancanza, fa pensare a come la dimensione dal vivo sia essenziale: perché qui nasce lo scambio tra esecutore e ascoltatore, prende vita l'attimo irripetibile, nascono e si tramandano storie, cambia la vita del singolo e, più spesso di quanto si pensi, della comunità. E ciò accade accomodati in un loggione o in mezzo alla ressa di un festival. Per questo è un dovere ascoltare il passato, è un dovere ripensare, nel concreto, a come tenere viva questa vita.
Foto di Miikka Luotio (Unsplash)
La canzone del giorno
The Only Baby, John Grant (2020)
Di John Grant custodirò sempre il ricordo di un concerto nel castello di Abbiategrasso, una torrida serata di ormai dieci anni fa. Un ricordo che vede protagonisti la sua voce e quei tocchi al pianoforte incastonati nella memoria. Oggi, a tre anni da Love Is Magic, Grant torna sulle scene, pubblicando un singolo estemporaneo, dettato, come lui stesso illustra, dall’urgenza di esprimere il suo punto di vista sulla situazione attuale, dall’orrore per quanto avvenuto a Capitol Hill, negli Stati Uniti, allo stato della musica, nel delicato rapporto con l’online. Nasce così The Only Baby. E sembra che il cantautore brilli di puro splendore.
Qui il video del brano, realizzato da Casey Raymond.
Una lettura
Historiae, Antonella Anedda (Einaudi, 2020)
Le Historiae di Antonella Anedda indagano la realtà — la più cruda realtà, che spazia dalla tragedia vissuta dai migranti al vuoto del lutto per una persona cara — forgiando immagini allo stesso tempo delicate eppure di una potenza fuori scala. A costruirle arrivano poi lezioni mutuate dal mondo della natura, da scienza e geologia; anche la lingua, che scivola tra l’italiano e il sardo, non è semplice mezzo espressivo, bensì voce autentica e personale. E di riuscire a osservare, a fondo e per davvero, il mondo circostante attraverso uno sguardo nuovo, un nuovo linguaggio, una prospettiva in versi in grado d’innescare percezioni inedite, ce n’è un gran bisogno.
Il libro sul sito di Einaudi.
DAL BLOG
Stephan Thelen, World Dialogue è un trionfo d’archi (con Kronos e Al Pari)
A innescare la scintilla di World Dialogue c’è un desiderio: quello di Stephan Thelen di comporre per il quartetto d’archi Kronos, di San Francisco. Desiderio che si esaudisce, si racconta grazie all’intercessione del giornalista musicale canadese Anil Prasad, e che porta come primo risultato 50 For The Future: The Kronos Learning Repertoire: cinquanta brani per quartetti d’archi.
Perché citare questo progetto? Perché proprio tra le sue partiture nasce l’ouverture del disco, Circular Line, prima delle quattro tracce che lo compongono. Le altre tre prendono vita invece grazie ad Al Pari, quartetto d’archi femminile polacco.
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