Preferisco camminare alla metropolitana, era così ben prima che la pandemia scompaginasse ogni abitudine e niente è cambiato: mi piace guardare i palazzi, scoprire posti nuovi; me ne frego persino della pioggia, purché non sia monsonica.
Tuttavia, da qualche tempo, è tornato a circolare un vecchio video, un esperimento nato dalla mente di un giornalista del Washington Post, che mi ha ricordato cosa potrei perdermi nei pressi dei tornelli. Per farla breve, Gene Weingarten ha proposto a Joshua Bell, uno dei più grandi violinisti al mondo, di suonare in una stazione della metro all’ora di punta. Il musicista ha accettato di esibirsi e, a giudicare dalle immagini, lo ha fatto divinamente. Il risultato? Bell è stato pressoché ignorato, quasi nessuno ha badato a lui e, dopo qualche ora e svariati virtuosismi, ha racimolato qualche spicciolo.
Questi più o meno i fatti che, nel corso degli anni e dei gironi infernali dei social, si sono ammantati di leggenda. Weingarten ha poi scritto un articolo sull’accaduto, vincendo un Pulitzer. Che io sappia, Bell continua la sua attività di violinista, ma mi piace pensare che qualche volta, sgattaiolando fuori dai teatri, si mimetizzi di nuovo indossando un berretto da baseball e scappi a fare il busker.
Di recente, ho ascoltato molti commentare il video sostenendo che, nella vita reale, non ci sia spesso tempo per fermarsi di fronte a un musicista di strada — si arriva in ritardo a scuola, al lavoro, al treno che parte. Per molti altri, non ha nemmeno senso focalizzarsi sul fatto che nessuno abbia riconosciuto un affermato violinista o brani del repertorio classico, rimarcando come non tutti abbiano strumenti e conoscenze per farlo. Altri ancora sostengono lo spreco della decontestualizzazione, l’assurdità del catapultare un baluardo dell’arte nel caos.
Foto di María Julia Martínez da Unsplash.
Al di là dell’esperimento in sé, ogni punto di vista può essere ragionevole. È che a me capita spesso di fare una cosa, anche questa mattina: mi capita di fermarmi al semaforo, prima di calpestare le strisce pedonali, quando è ancora giallo, senza affrettarmi, senza spintonare, senza correre, lasciandomi superare dai passanti affannati. Ci sono determinati punti in cui ciò accade, punti della città in cui vedo le stagioni scorrere: arrivata lì, alzo la testa, dal telefono, dalla strada, dai pensieri. Ogni volta, succede qualcosa di straordinario; ogni volta, in uno di quei punti, qualcosa cattura la mia attenzione: il riflesso del sole, una bandiera che sventola, dei fiori. La poetessa Antonella Anedda ha scritto centinaia di versi sulle armonie dei dettagli, mi ripeto, sul loro influsso nella vita: perché non affidarsi a questa forza?
E non è finita qui, perché a volte compare pure un’illuminazione, afferro pensieri che stavano lì nascosti, da chissà quanto tempo, e che possono riguardare faccende quotidiane tanto quanto i massimi sistemi: così deve essere, è tutto chiaro. In generale, non voglio perdere questi sparuti frammenti di bellezza, non voglio trascurarne nemmeno uno, non voglio vivere una vita senza fermarmi quell’attimo rivelatore, sentire dentro il sole che splende. Insomma, non voglio ignorare né un violino né un pensiero felice che può nascere dal caso. Voglio afferrare i famosi dettagli, averli tra i miei ricordi, guardarmi indietro e dire che li ho vissuti. Perché davvero, come dico sempre, tutto il resto è noia. Non credi?
Un podcast
Architettura di una canzone, di Loretta Da Costa Perrone e Giuliano Dottori
Scoprire una canzone, lasciandosi incantare dalla sua bellezza, ma anche addentrandosi nei meandri più nascosti delle sue fondamenta, metterne a fuoco i particolari, indagarne la storia, svelarne i segreti: con il podcast di Loretta Da Costa Perrone e Giuliano Dottori, Architettura di una canzone, prende vita un modo inedito, e appassionato, di illustrare la musica. Così, il racconto di ogni brano dà forma tangibile alla bellezza nascosta, svela l’alchimia del talento, narra con entusiasmo e precisione la nascita di una melodia. E ricorda come ispirazione e dedizione, pratica e talento, spirito e materia riescano a trasformarsi in arte.
Il podcast Architettura di una canzone è su Spotify.
Un libro
Il deserto dei tartari, Dino Buzzati (Mondadori, 2015)
Narra la leggenda che Dino Buzzati si annoiasse parecchio durante i lunghi turni notturni al Corriere della Sera, serate di noia straziante nell’attesa di un evento eccezionale, in grado di fare a pezzi la monotonia. Per quanto mi riguarda, lo immagino ogni volta che mi capita di passare vicino alla stanza dove, narra sempre la stessa leggenda, aspettava, seduto alla scrivania, arroccato nella sua fortezza di carta e inchiostro, mentre il mondo intorno a via Solferino sembrava immobile. Il deserto dei tartari è un classico da leggere e rileggere, perché, tra le sue parole, è in grado di parlare alla parte di noi che ne ha bisogno. Soprattutto ora, in attesa di un cambiamento, che si abbia o si cerchi la forza di scardinare i cancelli dei bastioni e tornare alla vita.
Un racconto
Mi chiamano Float
Qualche tempo fa, mi è stato proposto di scrivere per Telescope, la newsletter di arte contemporanea che, da più di un anno, racconta cultura, progetti e suggestioni. Ho scelto la mostra di Robert Breer, pioniere e visionario, per due motivi: perché non sapevo se l’avrei mai visitata — non lo so tuttora — e perché dare voce a chi il concetto di avanguardia l’ha sempre tenuto ben saldo mi sembrava un bel modo per guardare oltre, oltre le pareti di casa tanto quanto oltre le difficili contingenze. Il racconto si trova qui, basta cliccare sull’immagine, e spero ti piaccia:
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