Ricordo quella sera. La mia era una preghiera, invocavo solitudine, silenzio, una porta chiusa. Ricordo la voce rotta — la mia —, la strada al crepuscolo, il passo affrettato. Del tutto inaspettata, al primo tocco sul tasto play, eccola: Annarella.
Così, scarpinavo tra le personali macerie, affrettandomi verso casa e, come non accadeva da tempo, ascoltando quei versi nel profondo: lasciami qui, lasciami stare, non dire una parola che non sia d’amore. Perché ne avevo sentite fin troppe di parole, domande e recriminazioni.
Quando il brano è pubblicato, trentun anni fa, il mondo è in dissoluzione — come i miei riferimenti, quella sera —, gli stessi CCCP lo sono. Deflagrano le tensioni all’interno della band, la geopolitica va in frantumi, è lo smarrimento dell’io, lo sfacelo della realtà.
In modo emblematico, Annarella è l’ultimo brano dell’ultimo disco della band, diviso in quattro capitoli tematici, come indicato nel titolo: Epica Etica Etnica Pathos. Sulla copertina, i muri spogli di Villa Pirondini, dove è stato registrato, rivelano l’intonaco sbiadito, accolgono il senso di abbandono degli strumenti privi di musicisti, inermi, muti, il groviglio di cavi.
Giovanni Lindo Ferretti scrive i versi scarni, animati in una litania profonda, abbracciando con le parole il padre scomparso; il nome è invece omaggio ad Annarella Giudici, voce, gesto e anima scenica della formazione, con cui proprio Ferretti ha avuto un violento litigio: la musica è riconciliazione, con il passato, il presente, con i resti della vita che feriscono noi stessi tanto quanto chi decide di camminarci accanto.
Il tappeto angelico e le chitarre, sorretti dalla ritmica discreta, tracciano i contorni di un addio, riverberano con intensità crescente, prefigurando la fine di un’era e, allo stesso tempo, donando uno sguardo lucido all’oggi, a ciò che siamo e rimarremo, nonostante tutto.
C’è chi sostiene, a ragion veduta, che i CCCP si fossero già dissolti con il terzo disco; è lo stesso Ferretti a cristallizzare la loro fine in un preciso momento: il concerto a Mosca, nella storica primavera del 1989. L’Unione Sovietica, ricorda, «era il posto per noi, la Russia era come eravamo noi, sull’orlo della disgregazione». Ciò che ascoltiamo con Annarella è quanto di più simile alla luce di una stella, già spenta quando raggiunge la terra con il suo splendore.
Dettaglio della copertina di Epica Etica Etnica Pathos (Virgin, 1990), uno scatto di Luigi Ghirri.
L’anno successivo al tour sovietico, i CCCP — e nuovi sodali — si sarebbero chiusi nella già citata villa, isolata nella campagna emiliana di Rio Saliceto, per siglare il loro ultimo capitolo e lasciar scoccare la scintilla dei futuri CSI: avanti ancora, avanti sempre, un giorno dopo l’altro.
Nelle stanze dell’antica dimora, si registra quasi del tutto in presa diretta, catturando la magia di un suono intriso di storia; il mixaggio avviene in analogico e, nel libretto dell’album, si legge una nota eloquente: Tutto lo sporco degli anni ’90 con la tecnologia degli anni ’70.
Finisce così, arrivando da un luogo lontano, dipanando contrasti ed emozioni, un’esperienza di pochi anni, in grado di trafiggere generazioni di artisti a venire.
Del resto, ci sono eventi più grandi di noi, fuori dal nostro controllo, che si sottraggono anche ai desideri più potenti, dai quali scaturisce un’intensità deflagrante. Tuttavia, per citare Ilaria Spadaccini, dalla silloge Papavero bianco:
per quanto dolore sia passato
tu sei presente.
È fiato che manca, vuoto che tracima, eppure, nonostante tutto, siamo.
Almeno, questo è ciò che mi ripeto, ogni volta che apro gli occhi.
Un video
Lo scorso inverno, dopo un periodo di silenzio, José González è tornato con un il primo brano in spagnolo della sua discografia, El Invento. Poi è stata la volta di Visions e, in questi giorni, del relativo video. Ecco i primi passi del lungo viaggio verso il prossimo disco del cantautore, Local Valley, in uscita tra qualche mese. Nel mentre:
Un libro
Il libro delle case, Andrea Bajani (Feltrinelli, 2021)
Raccontare la vita di un uomo attraverso i dettagli, la storia, i frammenti che lo hanno reso ciò che è; scoprirne le tracce in quei luoghi che, giorno dopo giorno, lo accolgono e ne custodiscono segreti, delusioni e speranze: le case. Con una scrittura limpida, uno stile poetico e un’anima visionaria, Andrea Bajani scrive, per citare la quarta di copertina, «il grande affresco di un’educazione sentimentale a metri quadri».
Dimenticavo: Il libro delle case è candidato al Premio Strega.
Un’intervista
Ilaria Spadaccini, il suo Papavero bianco e la rinascita attraverso le parole
Quando Serena de I libri e i giorni mi ha consigliato Papavero bianco, ho avuto subito la percezione che sarebbe stato un libro importante. Qualche tempo dopo, ho avuto modo di chiacchierare con l’autrice, parlando di poesia, dolore, rabbia e amore in ogni sua forma, ma anche del potere catartico della scrittura, della forza necessaria per affrontare un dolore, dipanare la matassa dei nostri pensieri e, in qualche modo, rinascere:
«Siamo tutti in questo circolo di dolore, ribellione e amore, come onde che si infrangono sugli gli scogli e poi ritornano ancora.»
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