Ottant’anni anagrafici, una sessantina di carriera, decine e decine di dischi in studio, alcuni pubblicati in innumerevoli edizioni: per raccontare la leggenda, viva più che mai, basta ricordarne il nome ed è il caso di Bob Dylan.
Da ragazzino incollato alle stazioni radio country e blues a sommo autore del Novecento (e oltre, a quanto pare); dalle coffee house di Dinkytown al Nobel che, comunque la si pensi, sovverte il ruolo della canzone rock fino ad allora conosciuto, non tanto donandole dignità — intendiamoci: la musica, per sua stessa natura, ha la più alta dignità, sebbene il parere di un’etnomusicologa sia abbastanza di parte —, piuttosto cambiandone la concezione in quanto opera letteraria; dall’epoca delle proteste al misterioso incidente in moto e via dicendo: la vita di Dylan è di per sé opera sconfinata.
Anzi, è avanguardia, rottura degli schemi precostituiti. Qualche esempio?
Quando viene pubblicata Like A Rolling Stone, gli oltre sei minuti di canzone mandano in crisi le emittenti radio, che non hanno idea, imbrigliate nella dittatura dei tempi, di come diavolo mandare in onda non un semplice brano, bensì l’epica del rock’n’roll.
Nel 1965, con Bringing It All Back Home, inserisce il jack della chitarra in un amplificatore elettrico e cambia per sempre la storia, unendo le antitesi: le distorsioni di Subterranean Homesick Blues e gli accordi limpidi di Mr.Tambourine Man, scossa e fervore, tutto insieme. Pochi mesi dopo, sul palco del Newport Folk Festival, Dylan fa prendere un colpo ai puristi del folk, diventa traditore, eroe decaduto, ma ai più saggi indica chiaramente una cosa: che i tempi stanno cambiando.
Ancora, vince il famoso Nobel, non si presenta alla cerimonia di consegna, fedele a sé stesso prima che a chiunque altro, lezione dylaniana non da poco conto, per noi comuni mortali da prendere a piccole dosi. Al suo posto, tuttavia, ecco l’amica di sempre, un’anima affine, una poetessa che ha combattuto le stesse battaglie e sussurrato con identica grazia: Patti Smith.
Ancora, nel pieno della pandemia, pubblica un inedito come Murder Most Foul, pura alchimia: un’evocazione del passato che in realtà narra in modo lucido e chirurgico il presente. Come dal primo giorno, Dylan assorbe le emozioni, le traduce in versi e accordi, restituendole come saggezza, sapere comune, gnoseologia, diventando patrimonio universale come sanno fare solo i grandi.
Joan Baez e Bob Dylan alla Civil Rights March di Washington del 1963. Foto di Rowland Scherman.
L’opera di Dylan non è solo musica e non è solo letteratura: voce, chitarra, armonica, ciascun parametro della sua interpretazione danno origine a una supernova unica e inscindibile; persino il cipiglio, la ferrea volontà, il totale disinteresse per ogni forma di critica concorrono a innalzarne il valore. Quindi sì, una persona può cambiare la storia, l’arte stessa può farlo ed è vero: il rock’n’roll non muore mai.
Ricordacelo, Dylan, quanto è saggio e bello alzare gli occhi dal nostro riflesso nello stagno per guardare il mondo con occhi sempre nuovi, divorarlo con sguardo sempre fiero.
Avviso ai naviganti, che non vorrei seminare il panico: i Dispacci tornano il 9 giugno. Per il periodo estivo — è quasi estate, incredibile — l’appuntamento diventa quindicinale, magari con qualche novità, vedremo. Un enorme grazie a chi ha risposto al sondaggio!
Un disco
Blonde On Blonde, Bob Dylan (Columbia, 1966)
Scegliere tra una quarantina di dischi in studio, firmati dal più grande autore di canzoni di sempre, è follia: così, follemente, ho scelto Blonde On Blonde. Negli studi di Nashville, nasce il primo album doppio del rock e ne diventa archetipo di stile, temi, messaggio: sanguina blues e si perde nella psichedelia, osserva la lezione del folk ma guarda già al futuro, dettando le linee di quella che sarà la storia dei cinquant’anni (e oltre) successivi. In Blonde on Blonde, Bob Dylan dice tutto, è profeta della musica, maestro d’intimismo universale. Così, nascono gli oltre undici minuti di Sad Eyed Lady Of The Lowlands, la sublime melodia dei versi di Visions Of Johanna, l’enigmatica Stuck Inside Of Mobile With The Memphis Blues Again (a proposito, Ettore Sottsass si ispira a questa canzone per il nome del collettivo Memphis Design, ai vertici del postmodernismo degli anni Ottanta).
È il 1966 e il futuro — come si rendono conto alcuni tra i più acuti dell’epoca, tra cui Beatles, Stones ed Eric Clapton — è già stato scritto.
Un libro
Questa terra è la mia terra, Woody Guthrie, traduzione di Cristina Bertea (Marcos y Marcos, 2011)
John Steinbeck, che di oppressione e letteratura ne sa qualcosa, vede in lui il genuino spirito americano, uno spirito fondato su libertà ed eguaglianza: Woody Guthrie è il padre dei folksinger, poeta e cantautore per vocazione, rivoluzionario nell’animo. Questa terra è la mia terra è la sua autobiografia, un libro disseminato di gesti di speranza, musica, solidarietà, emarginazione. Guthrie, da menestrello vagabondo, ha conquistato gli intellettuali di New York e studiosi come Alan Lomax, contribuendo a tramandare un inestimabile patrimonio folk, assemblando una discografia straordinaria, Bibbia in versi e accordi per generazioni di artisti. Tra questi, al suo capezzale per l’ultimo saluto, ecco anche loro: Joan Baez e Bob Dylan.
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