«So riconoscere un’ossessione, non porterà a niente di buono» osserva Nikola Tesla, interpretato da David Bowie, in una memorabile scena di The Prestige, film di Christopher Nolan basato sul romanzo omonimo di Christopher Priest.
Incalzato dall’interlocutore, che domanda se davvero le sue non gli abbiano dato giovamento, continua, con profetica freddezza: «Al principio, ma le ho inseguite troppo a lungo. Oggi ne sono schiavo. E un giorno decideranno di distruggermi».
Le ossessioni non sono figure astratte. Quando si è — o, nei casi più fortunati, si è stati — preda di un’ossessione, le si distingue, anche in chi incontriamo, se si è abbastanza attenti. Sono entità presenti, accompagnano chi ci è accanto, compaiono nelle parole, negli sguardi, nelle omissioni, persino nei silenzi: diventano soggetto tangibile, influenzano decisioni, scivolano tra le vite degli altri, contaminandole.
Un’ossessione assume fattezze diverse: una persona, un lavoro, un’idea; le sue forme sono infinite e le esperienze così ricche di sfumature che provare a categorizzare, come spesso accade quando si stilano infiniti elenchi, sarebbe limitante e, almeno in questa sede, fuorviante.
Piuttosto, c’è un tratto che accomuna chi è preda di un’ossessione, un grande classico: la salvezza non è contemplata, non è chiesta, tantomeno desiderata.
L’ossessione autorizza a mentire, nasconderci, a spendere tempo, energie, denaro in suo nome; per quanto possa ferire, ricordiamo solo che è la nostra unica ragione di vita, eliminiamo le prove negative della sua esistenza in favore di brevi attimi di appagamento. L’abbandono è impensabile, la dinamica è di una vera e propria dipendenza, simile in modo inquietante a quelle, più concrete e non meno distruttive, da alcol e droghe. È l’abisso di cui parla Sigmund Freud, in cui addentrarsi, da soli, è un azzardo.
C’è un libro che più di ogni altro racconta dell’ossessione ed è Moby Dick di Herman Melville: il capitano Achab perde la ragione inseguendo la balena bianca, è tormentato, trascina ai confini del mondo e della vita sé stesso e chiunque si trovi a bordo della sua nave. È la spasmodica attrazione per l’ignoto, l’eterna lotta tra bene e male, l’infinito inseguimento di ciò che si desidera conoscere, ma che mai si potrà dominare.
Inoltre, c’è un altro romanzo, più terreno e di incredibile potenza, sullo stesso tema: La morte a Venezia di Thomas Mann, portato al cinema da Luchino Visconti. Il personaggio vive e respira per la sua ossessione, un amore non corrisposto per un ragazzo più giovane. Il tempo scorre in ragione dell’altro, il sé è annullato, così come viene respinto ogni ragionevole tentativo di tornare alla realtà, dal contatto sociale alla fuga da una città stretta nella morsa del colera.
Giovanni Battista Piranesi, Carceri d’invenzione (1761)
Con un balzo in avanti nel tempo e di fronte al grande schermo, ne Il cigno nero di Darren Aronofsky l’ossessione diventa ancora più oscura: Nina è una ballerina che vibra di fragilità e insicurezze, un opprimente rapporto con la madre, schiava del controllo per corpo e mente. Il ruolo da protagonista in un balletto è occasione per esplorare l’interiorità da sempre chiusa a chiave, fatta di pulsioni, desideri, angosce.
Quindi, il baricentro si sposta. Fulcro dell’analisi non è tanto l’oggetto dell’ossessione in sé: siamo noi. Un’ossessione è uno schermo, ci distrae da noi stessi, dal mosaico in frantumi che è il nostro essere, dalla fragile intimità che spesso non abbiamo il coraggio di accarezzare. L’ossessione, nei meandri di tutte le sue cause, affonda nella paura, nella paura di riconoscere la nostra unicità tanto quanto la nostra vulnerabilità, è il nostro andare in pezzi.
Ecco l’ossessione, un doomscrolling nel nostro personale baratro.
Durante il dialogo accennato all’inizio, Nikola Tesla suggerisce al protagonista di «tornare a casa»: l’unica soluzione possibile, riappropriarci del nostro tempo, della nostra identità, di una vita troppo bella e breve per inseguire una balena fino a essere inghiottiti nelle profondità del mare.
Un libro di qualche tempo fa
Nella casa del pianista
di Jan Brokken, traduzione di Claudia Di Palermo (Iperborea, 2018)
Giornalista, viaggiatore e musicofilo, Jan Brokken racconta l’intenso legame con l’amico Youri Egorov, folgorante talento del pianoforte. Come fu per Rudolf Nureyev, il musicista, dalla natia Kazan, fugge in Europa scavalcando la cortina di ferro, dove il suo talento conquista cuori e platee.
Le pagine di Brokken sono intrise di sensibilità, raccontano di amicizia, dedizione, afflati libertari, tratteggiano un’epoca. Soprattutto, offrono uno sguardo sincero, la scoperta della fragilità nascosta in un talento unico, tra insoddisfazione, nostalgia, riscatto e speranza.
Un film, in sala e streaming
Nel presentare il suo film fuori concorso alla Biennale di Venezia, Leonardo Di Costanzo racconta che Ariaferma è un’opera sull’assurdità del carcere. Così, traducendo in immagini l’idea, il regista svela il nocciolo duro delle relazioni tra persone umane, costruisce un’atmosfera a tratti opprimente, a tratti diafana, sospesa nell’attesa, ovattata negli echi delle pareti di un carcere in abbandono.
Proprio la prigione ottocentesca (location è il carcere di San Sebastiano, a Sassari) non è solo scenografia, ma reale protagonista della scena, imprigiona e custodisce, vede le relazioni mutare, imprevedibili, le essenze svelarsi, il silenzio raccontare più di mille parole.
Il film è al cinema, qualche sala lo propone e il consiglio è di approfittarne, altrimenti è disponibile in streaming, su Prime Video.
Un disco appena uscito
Yard Act
The Overload (Island, 2022)
«Dark days, I have the blues and I can’t shake them loose, it’s a neverending cycle of abuse» cantano gli Yard Act, lads from Leeds, alfieri di un post-punk che, lungi dall’essere invecchiato, mutua una grammatica contemporanea per far sentire la propria voce.
Il brano citato, Dark Days, regala il titolo all’ep di esordio della band, uscito un anno fa. Oggi, The Overload segna il debutto ufficiale con sei tracce, poco più di mezz’ora in grado di lasciare il segno.
Il segreto della mia comicità? La ribellione di fronte all’angoscia, alla tristezza e alla malinconia.
Monica Vitti, maestra di vita, 1931-2022
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