#61. Plurale femminile
Le storie raccontate nell'antologia "Un lavoro da donne", le vite di Valeska Gert ed Elizabeth Cotten, tre consigli per un Dispaccio speciale declinato (interamente) al femminile.
Ciao !
Quando Teresa Mattei, che sceglie il fiore insieme a Rita Montagnana e Teresa Noce, definisce il simbolo della Giornata internazionale della donna, precisa che: «La mimosa significa tenacia».
Oggi come allora i simboli sono necessari, rendono tangibile il pensiero, tuttavia non bastano. La lotta delle donne abbraccia la lotta di chi è discriminato e oppresso per sesso, razza, identità di genere, abilità, reddito, latitudine, accesso al privilegio e sono sicura di aver dimenticato altri elementi. La lotta delle donne è la lotta intersezionale di chi alza la propria voce, di chi s’incontra nella stessa piazza.
Nel Dispaccio speciale di oggi ci sono donne le cui storie dovrebbero essere raccontate ogni giorno; donne che cercano, trovandola, la propria voce — cosa affatto scontata, se cresci sentendoti ripetere che è meglio tu stia zitta — e il proprio spazio. Ecco dunque Elizabeth Cotten, anima del folk americano; Valeska Gert, che ispira un intero secolo, dalle avanguardie al punk; le protagoniste dell’antologia di saggi musicali Un lavoro da donne, curata da Kim Gordon e Sinéad Gleeson, con la prefazione di Claudia Durastanti.
È Un lavoro da donne, da strappare all’ombra
Forse non esiste un’espressione più efficace per definire il rapporto — di tipo professionale, ludico, creativo — con la musica di diaforesi estatica, coniata da Margo Jefferson nel suo saggio presente in Un lavoro da donne. Il libro è «un’antologia dedicata a cantanti, giornaliste, compositrici, donne che hanno stabilito un rapporto radicale con la musica», come afferma Claudia Durastanti nella prefazione.
Nella raccolta, curata da Kim Gordon e Sinéad Gleeson, confluiscono fisicità e passione, studio e talento, bollette e ideali in una prospettiva che tributa la dovuta memoria alle donne che hanno costruito la storia della musica.
Emerge inoltre una riflessione interessante. Tutte le donne, descritte con lucida devozione dalle autrici dei testi, esprimono la perfetta dose di competenza e talento, qualcuna anche di sregolatezza, nonché un amore viscerale per la propria arte. Attraverso le loro vite e i loro gesti si definisce soprattutto una precisa lezione, un insieme di procedure, teorie e tecniche che col tempo si codificano, sedimentano e diventano patrimonio collettivo.
È il caso esemplare di Wendy Carlos. Quando è bambina, la famiglia non può permettersi di regalarle un pianoforte, così inizia a giocare con i tasti disegnati su un foglio di carta. E il suo genio non si quieta, anzi. Cresce e approccia l’uso del nastro nella musica elettroacustica, si muove impavida tra le sperimentazioni degli anni Sessanta. È il 1964 quando acquista il primo Moog, un prototipo che lo stesso creatore vorrebbe perfezionare. Collaborando poi con lo stesso Robert Moog, non solo sfodera un profondo talento compositivo, bensì corre oltre, piegando scienza e tecnica in nome delle possibilità espressive dello strumento. Carlos è compositrice, fonica e soprattutto ingegnera del suono. Si definisce «una musicista che parla la lingua della scienza» e il suo tocco sopravvive, ad esempio, in colonne sonore immortali come quelle di Arancia meccanica e Shining.
C’è anche la consapevolezza del proprio ruolo, nel lavoro e nella società, di Lucinda Williams, con la sua Fruits Of My Labor che si trasforma in un’eloquente preghiera, un invito che sembra anticipare di decenni il dibattito contemporaneo a tema work life balance, assecondando la realizzazione personale senza però trascurare sé stesse. E c’è Meghan Jasper, che per lunghi e intensi anni lavora in quel che definisce «il perenne fermento» della Sub Pop Records, un fermento che deflagrerà su tutte le terre emerse.
Tutto straordinario, eppure le protagoniste sono quasi sempre relegate ai margini del racconto, destino che colpisce in modo ancora più risoluto le artiste afroamericane e non occidentali.
Nello splendido Canti d’esilio, Fatima Bhutto dona nuova luce al rapporto con la musica di chi è costretto ad abbandonare la patria — la musica abbatte le barriere di spazio e tempo, ed è un veicolo identitario inossidabile — e ne approfitta per svelare la storia di Madam Noor Jehan, celebrità del cinema pakistano che intona canti di guerra in studi radiofonici vuoti, senza badare alle bombe che fischiano sopra la sua testa; oppure quella di Iqbal Bano, che interpreta i versi del poeta Faiz su nastri clandestini esportati in tutto il mondo, un grido contro la dittatura che esplode nei mangiacassette della diaspora. Bhutto prova inoltre a rispondere a una domanda fondamentale: «Perché le canzoni sono tanto minacciose per i dittatori?».
Sedici scrittrici, giornaliste, artiste tratteggiano un ritratto appassionato delle loro muse e frantumano le ombre sulle protagoniste della musica. C’è il giusto onore della memoria, c’è l’analisi attenta di un universo caleidoscopico, nella scenografia di tematiche che vanno dal folk caraibico all’identità razziale nella trap.
Nota a margine: l’etnomusicologo Alan Lomax è uno dei miei fari esistenziali, non sento tuttavia quasi mai nominare la sorella Bess Lomax, studiosa e musicista, membro degli Almanac. Ebbene, in queste pagine compare anche lei.
— Un lavoro da donne, a cura di Kim Gordon e Sinéad Gleeson, con la traduzione di Chiara Veltri, esce oggi per Sur.
Valeska Gert è la musa punk del secolo breve
La osservi danzare tra le immagini in bianco e nero di Tanz in Orange, pellicola del 1916, e pensi sia una creatura comparsa dal futuro. Tra i suoi passi frenetici, scardina l’ordine ufficiale dell’epoca, borghese e noioso, puntando l’attenzione verso ben altro, come avrà modo di dichiarare lei stessa, verso il mondo di chi è relegato ai margini della società. Con l’ombretto scuro a incorniciare gli occhi brillanti, la pelle diafana e le labbra scarlatte, Valeska Gert è una delle anime indomite del secolo scorso.
Si esibisce nei cabaret berlinesi degli anni Venti, è attrice per il cinema, scrive, posa nuda; la danza è parte della sua vita sin dall’infanzia, e ne diventerà il filo rosso per l’intera esistenza. Tra le due Guerre mondiali, la sua arte sembra già proiettata nell’iperuranio, nella semplicità rivoluzionaria delle sue idee: accade ad esempio quando sale sul palco di un chiassoso locale e resta immobile, calamitando su di sé l’attenzione degli spettatori, un centro orbitale nel caos intorno. In scena trascina tematiche di ogni genere, anche scomode, dalla rappresentazione della propria morte alle rivendicazioni femministe, il tutto attraverso un uso pieno e disinibito della fisicità.
A intercettarne fascino e spirito anticonformista sono nomi come Greta Garbo e Bertold Brecht, con cui attraversa l’Europa in tour, senza dimenticare Georg Wilhelm Pabst, che la vuole in tre film, tra cui la trasposizione cinematografica de L’opera da tre soldi dello stesso Brecht. Gert ispira l’espressionismo tedesco e le avanguardie storiche, e la sua figura s’impone tra le muse di punk e new wave (un nome su tutti che può ricordarla, restando in territorio tedesco? Lei, Nina Hagen).
Nata Gertrud Valesca Samosch, nel 1933 è interdetta alla vita artistica dalle leggi razziali naziste ed è costretta all’esilio tra Regno Unito e Usa. Tornerà a Berlino e tornerà a brillare sullo schermo con la Giulietta degli spiriti di Federico Fellini. L’avremmo vista anche in Nosferatu il vampiro di Friedrich Wilhelm Murnau, se non si fosse spenta poco prima dell’inizio delle riprese.
Oggi, Valeska Gert resta inafferrabile e inimitabile, radicale nella concezione dell’artista, anarchica verso il sistema: è puro spirito punk ante litteram.
L’anima di Elizabeth Cotten nel folk americano
Quando compone Freight Train è appena una bambina. La canzone è pubblicata molti anni dopo, nell’album Folksongs And Instrumentals With Guitar del 1958. Subito è intercettata e interpretata da giganti del cantautorato americano — tra loro ci sono Joan Baez e Bob Dylan — che brilla nello scoprire la luce di un nuovo talento: Elizabeth Cotten.
Il disco rivela il genio di una musicista autodidatta, che imbraccia la chitarra da una vita eppure tiene il primo concerto da ultrasessantenne, approdando a festival come Newport Folk e Smithsonian Folklife. Da quel momento, Cotten suona fino quando le sue dita riescono a scorrere sulla tastiera.
In casa Cotten, nella Carolina del Nord, si respira da sempre musica. Pochi anni dopo la sua nascita, nel 1893, Elizabeth trafuga il banjo del fratello, prende confidenza con l’oggetto misterioso, sperimenta e inizia a comporre le proprie canzoni. È mancina e per tutta la vita suonerà in modo inusuale, codificando una tecnica che sarà la sua firma. Dal primo giorno, impugna infatti lo strumento al contrario, senza tuttavia cambiare l’ordine delle corde, e sovverte le regole del fingerpicking: suona le note basse con l’indice e detta la melodia con il pollice.
La sua esistenza sembrerebbe consacrata alla musica, ma come spesso accade le contingenze hanno la meglio: da adulta è costretta ad abbandonare le velleità artistiche, considerate poco morali dalla chiesa che aiuta lei e il marito in gravi difficoltà. È New York a far scoccare la scintilla del cambiamento: Cotten divorzia e raggiunge la propria indipendenza economica, trovando un impiego ai magazzini Lansburgh’s, un luogo tutt’altro che trascurabile. Qui incappa in Charles Louis Seeger Jr e Ruth Porter Crawford, l’influente famiglia di musicisti di cui diventa la domestica.
Un giorno, sorpresa a strimpellare una delle chitarre presenti in casa, l’incantesimo si compie, il talento è svelato: la famiglia la incoraggia a tornare tra le braccia della musica; Mike Seeger, uno dei figli della coppia e anch’egli musicista, produce il primo disco. Il solco è tracciato.
La musica di Elizabeth Cotten è senza confini, scorre tra country, blues e ragtime e ha influenzato artiste e artisti di ogni genere ed età; il Cotten picking, il suo modo originale di suonare, diventa uno stile con stuoli di devoti. Il suo talento inossidabile ha travalicato ogni ostacolo, ogni difficoltà della vita, per restare.
Tre cose
🎞️ Sisters With Transistors racconta le pioniere della musica elettronica
L’evoluzione tecnologica ha dischiuso nuovi orizzonti musicali: cambiano le modalità di produzione e registrazione, cambia la stessa percezione del suono. Nella ridefinizione del pensiero musicale, le donne hanno avuto un ruolo cruciale, troppo spesso relegato ai margini o addirittura dimenticato: hanno accolto l’innovazione, sperimentato, diluito i confini di genere. Sisters With Transistors è un documentario che racconta le “eroine” della musica elettronica, come le definisce la regista Lisa Rovner. Il viaggio inizia nel secolo scorso con Clara Rockmore, virtuosa del theremin alla fine degli anni Venti, per approdare a Laurie Spiegel, i cui brani sono stati scelti dalla Nasa per il programma Voyager e spedite nello spazio. È una storia di musica, emancipazione, rivendicazione di un ruolo preciso nella società, una dichiarazione d’indipendenza.
— Il documentario è disponibile in streaming su Now (e ne avevo già parlato millenni fa, nel Dispaccio #28).
📰 Le donne afroamericane che fondarono The Musical Messenger
Sette pagine, stampate nel 1889 e conservate alla Library of Congress di Washington: così The Musical Messenger, la prima rivista musicale dedicata alla black music, è giunta fino a noi. Pubblicata per appena cinque anni, è stata fondata da Amelia Tilghman, musicista ed educatrice, giornalista musicale appassionata ed esperta. Al suo fianco compaiono altre due donne: Lucy Bragg Adams, anche lei musicista e autrice, e Victoria Earle Matthews, attivista. Arte e cultura afroamericane diventano elemento identitario nel dibattito pubblico: ignorarle ed escluderle è una forma di violenza e razzismo. Ecco come la musica si fa archetipo di libertà, di espressione e di scelta, ma pure di equità. Tra le pagine sono pubblicati spartiti, approfondimenti storici e recensioni, senza dimenticare riflessioni sull’attualità. Perché la musica è un atto politico, l’atto di unire, far sentire la propria voce, e con The Musical Messenger diventa una rivendicazione intersezionale.
— L’articolo completo, The women behind the first black music magazine, è su Atlas Obscura.
📚 L’autobiografia di Viv Albertine delle Slits: Vestiti musica ragazzi
Nella fucina creativa della Londra di metà anni Settanta, Viv Albertine ha un desiderio che la infiamma: far parte di una band. S’innesca così la reazione che la porta nelle Slits, leggendaria band punk femminile, archetipo e ispirazione per le generazioni future. Decenni più tardi, Albertine scrive la sua autobiografia raccontando passioni ed eccessi, intrecciando le sue memorie all’affresco di un periodo storico senza eguali. Tra le pagine compaiono anche altri artisti, come l’amico Sid Vicious e l’innamorato Mick Jones, che le dedica Train In Vain dei Clash. La domanda è: c’è vita oltre il punk? Ebbene sì, la vita oltre il punk esiste, poiché la storia di Albertine approda fino ai giorni nostri, affrontando temi come la procreazione assistita e il divorzio, ma anche raccontando il ritorno alla musica e l’approccio con il cinema. Perché nessuno resterà per sempre giovane, tuttavia la lezione indomita e vitale del punk può insegnare un modo meraviglioso, in bilico tra saggezza e spregiudicato coraggio, per invecchiare.
— Vestiti musica ragazzi di Viv Albertine, con la traduzione di Paola De Angelis, sta per essere pubblicato da Blackie Edizioni.
Per il Dispaccio di oggi è tutto.
Se hai voglia di condividere le tue idee, se vuoi conoscere altre storie o raccontarne qualcuna, se hai domande, consigli, se non dormi, se pensi che parole e musica possano e debbano cambiare il mondo: scrivimi.
Questo Dispaccio è dedicato a Bruna, mia nonna. And so it goes.
A presto,
Samantha
PS: sarai a Book Pride, a Milano, questo weekend? Palesati, chiacchieriamo: sarò in giro.