#65. Perenne
Boschi e foreste in un'installazione artistica, nel documentario che racconta un disco, in un cortometraggio, tra le comunità lucane. Gli Accenti ospitano Ferdinando Cotugno e Luigi Torreggiani.
Ciao !
Il primo Dispaccio di maggio profuma di bosco. Racconta un’installazione artistica che ha portato nel centro di una grande città i suoni della natura, un cortometraggio dedicato al mondo contadino, un documentario su un disco nato tra le montagne, una narrazione appassionata di antichi riti arborei.
Tornano poi gli Accenti, con una puntata speciale in cui sono felice di ospitare Ferdinando Cotugno e Luigi Torreggiani — la mia coppia aspirazionale del giornalismo verde — con il loro podcast, Ecotoni.
Una cartografia uditiva per il futuro
È una cartografia acustica quella che gli artisti del suono e dj Pablo de Vargas, alias Lechuga Zafiro, e Delia Beatriz Martinez, in arte Debit, disegnano con Biopaisajes Sonoros. I due registrano sul campo le voci della natura con meticolosa attenzione, visitando le aree protette tra Uruguay e Messico, per comporre vere e proprie sinfonie, opere che ricostruiscono lo spaziotempo delle foreste, consentendo l’accesso a una dimensione uditiva unica ovunque ci si trovi.
Così, un paio di settimane fa, sono capitata all’improvviso in un non-luogo. Nei riflessi acidi del sole pomeridiano, filtrati dai pannelli colorati alle finestre, si ciondola tra le mura di una costruzione abbandonata, avvolti dai suoni della foresta; un’esperienza immersiva, un miraggio urbano che in realtà è un’istantanea del possibile domani, gettata nel bel mezzo del caos cittadino che continua come se niente fosse.
Pausa, il nastro si riavvolge.
Tutto inizia con una domanda: come sarà l’Italia nel 2786? Il filosofo ed evoluzionista Telmo Pievani e il geografo Mauro Varotto lo hanno immaginato e hanno avuto la premura di fissare la loro visione in un libro: Viaggio nell’Italia dell’Antropocene (Aboca). Scocca leggendo queste pagine la scintilla che porta Agostino Iacurci a concepire una delle sue ultime opere.
Ecco come potrebbe diventare la Valle del Po, ma pure tutto il paese, in poche centinaia di anni (forse anche meno), a meno che la gestione delle risorse non cambi: un paesaggio desertico, con giorni e notte di calura opprimente.
Iacurci prende in prestito un paio di espressioni dai climatologi per creare Dry Days, Tropical Nights. Il luogo prescelto è la monolitica torre di Largo Treves, progettata negli anni Cinquanta da Arrigo Arrighetti che, a breve, non esisterà più, sarà demolita dopo aver sovrastato per generazioni gli antichi palazzi di Brera, nel cuore di Milano. Nei giorni frenetici del Fuorisalone, entrare qui è come varcare un portale dimensionale: il delirio urbano sfuma oltre la porta d’ingresso, i suoni naturali avviluppano chi visita la mostra, esaltando le vivaci installazioni luminose.
Sono l’intensità dei colori e la nitidezza dei suoni a catturare l’attenzione e infondere consapevolezza, il primo tassello per costruire un disegno di speranza che si rispetti: prendi il tuo tempo, pensa, torna là fuori con una nuova idea nella mente; non lasciarti abbagliare dal superfluo, poiché il tempo del superfluo è agli sgoccioli. Il fascino della natura, e con esso l’incanto dell’arte e del suono, è una calamita che impone di fermarsi; a sua volta, fermarsi impone una riflessione sulla contemporaneità, su una terra meravigliosa che, diversamente dal palazzo di cemento nel centro di una città italiana, è nostro dovere non lasciare andare in pezzi.
E se il canto di un nandù può instillare simili pensieri, che sia trasmesso a media unificati.
Tre cose
🎞️ L’Omelia contadina di Alice Rohrwacher e JR
Le note della marcia funebre si intrecciano alle parole di Pier Paolo Pasolini e Rachel Carson, declamate sull’altopiano dell’Alfina: così JR, autore di enormi sagome di contadini portate in processione, e Alice Rohrwacher, regista del cortometraggio, ci accompagnano al funerale del mondo agricolo e agreste. Il film omaggia il legame profondo che lega donne, uomini e natura; allo stesso tempo, esalta la resistenza al cambiamento e alla rovina, a un progresso senza scrupoli e senza visione: «Ci avete seppellito, ma non lo sapevate che eravamo semi».
Puoi guardare Omelia Contadina su Mubi.
🎶 Karma Clima dei Marlene Kuntz diventa un documentario
Lo scorso weekend, al Trento Film Festival è stato proiettato in anteprima il documentario Karma Clima. Il film racconta le residenze artistiche dei Marlene Kuntz nel cuneese, a Ostana, Piozzo e Rittana, sfociate nell’ultimo disco, un percorso creativo e di dialogo continuo con il paesaggio e chi lo abita ogni giorno. Nelle parole del regista, Michele Piazza, «È un film che contiene le registrazioni dei musicisti, gli incontri con le comunità e le associazioni coinvolte e testimonianze sul tema del cambiamento climatico».
🌲 Il Maggio di Accettura raccontato in un podcast
Le comunità che abitano i boschi tra Basilicata e Calabria tramandano da secoli antichi rituali legati agli alberi, fatti di gesti, sudore e canti: il più popolare, studiato e visitato è certo il Maggio di Accettura. Quale sarà il futuro di questi riti? Come si intrecciano alla vita di donne e uomini di questi paesi? Lo racconta Andrea Semplici, fotografo e giornalista che, da Firenze, si è trasferito in Lucania, ammaliato dalle tradizioni.
Puoi ascoltarlo nella puntata speciale del podcast Ecotoni dedicata ai Riti arborei.
Conversazioni con chi ascolta, osserva, immagina, scrive:
Ferdinando Cotugno & Luigi Torreggiani, Ecotoni
È un parola stupenda, che racchiude scienza e poesia: Ferdinando Cotugno e Luigi Torreggiani non avrebbero potuto scegliere un nome migliore di Ecotoni per il loro podcast. Da un paio d’anni, i due giornalisti raccontano storie di alberi, donne, uomini e gestione forestale sostenibile, con un approccio limpido e un tocco musicale.
Eccola qui, finalmente, la mia coppia aspirazionale del giornalismo verde.
Ecotoni ha appena compiuto due anni e merita una domanda marzulliana: da dove siete partiti e cosa vedete all’orizzonte?
Ferdinando — Per me è stato un viaggio di trasformazione, dal punto più lontano che si potesse immaginare da un ecotono, una via di Milano, zona Città Studi, davanti a un’edicola dove intervistavo il proprietario (le edicole sono posti incredibili, è il più bel pezzo che non ho mai pubblicato). Lì ho ricevuto la telefonata che ha innescato la catena di eventi che per me — urbano e marittimo — ha inaugurato il capitolo dei boschi e delle montagne. Da lì è nato un libro, Italian Wood (Mondadori), che mi ha fatto tanti doni: il più grande dono che mi ha fatto Italian Wood è l’amicizia con Luigi, nata con una mail durante il cupissimo periodo del secondo lockdown, in cui mi chiedeva se mi andava di fare un’intervista sul libro. In quella diretta, fatta in zona rossa e con tutto il mondo fuori, tra Milano e Arezzo, ci siamo piaciuti tanto, e così — d’istinto, senza particolare strategie, come faccio le cose — un paio di settimane dopo, in piena fine del mondo, ho mandato una mail a Luigi in cui gli chiedevo cosa ne pensava dei podcast e se aveva voglia di farne uno con me. Per fare una pazzia come Ecotoni servono due mezzi pazzi, come noi, e quindi lui mi ha detto «sì!» ed è iniziato questo viaggio, una catena di straordinari eventi.
Non lo so cosa vedo all’orizzonte, a volte costruendo il mondo di Ecotoni abbiamo dei bagliori di futuro, a volte dobbiamo solo fidarci del processo e l’uno dell’altro, Luigi e io siamo molto diversi, per metodo, visione del mondo, approccio alle cose, ma è un legame di cui mi fido profondamente. Ecotoni per me è innanzitutto questa esperienza umana qui, la costruzione di un’amicizia a mezzo podcast.
Luigi — “Egregio dottor Cotugno”: la mia prima mail verso Ferdinando iniziava così... volevo intervistarlo sul suo libro Italian Wood, che mi aveva molto positivamente colpito, ma non sapevo nulla di lui, quanti anni avesse, che tipo fosse… ma il bello viene ancor prima. Un giorno, in redazione di Sherwood, da Mondadori arriva questo libro e una collega commenta così: «Un giornalista ha scritto un saggio sui boschi italiani». Immediatamente mi irrigidisco, scrollo la testa, già mi immagino di doverlo leggere forzatamente per poi smentire punto su punto le solite inesattezze. Noi esperti di foreste non abbiamo normalmente un buon rapporto con la stampa: in un settore piccolo e complesso come il nostro per fare buona informazione c’è bisogno di molto studio, approfondimento. Non è raro, ad esempio, trovare giornalisti che paragonano un intervento selvicolturale correttamente eseguito a norma di legge a ciò che accade drammaticamente in Amazzonia… Poi però, già dalle prime righe, capisco che Ferdinando i boschi italiani li ha studiati davvero, nel profondo, ha parlato con tante persone esperte, tra cui il direttore della rivista per cui lavoro (ma io non lo sapevo ancora!). Il libro di Ferdinando mi appassiona da subito, pagina dopo pagina capisco che la storia dei boschi italiani, da me sempre vista “da dentro” e non “da fuori”, è una meravigliosa storia da raccontare. Con Ferdinando, dopo la presentazione del libro, nasce un feeling particolare: siamo diversi ma ci capiamo al volo. Poi, durante la cupezza del secondo lockdown del Covid, arriva la sua mail in cui mi propone di realizzare un podcast. Ricordo perfettamente dove ho letto quella mail, sul soppalco in legno della mia casa di famiglia, a poche decine di centimetri dalle travi di un tetto in legno massiccio (e certificato!) di abete rosso.
Ho respirato quel profumo di resina e non ho esitato un solo istante, perché in fondo era un’occasione che aspettavo da tempo: raccontare il mondo delle foreste non solo agli addetti ai lavori (il ruolo di Sherwood) ma anche ad un pubblico molto più vasto.
Ho risposto subito, con entusiasmo, e mi sono messo immediatamente a cercare su Google: “Come si costruisce un podcast”…
Com’è nata l’idea di Woodpunk?
Ferdinando — A volte le parole contengono mondi. Woodpunk è una parola che si è presentata alla nostra porta come un bambino da adottare: ciao, sono un’idea, vi volete occupare di me? La porta era quella della fervida mente di Luigi, io avevo scritto un articolo sul solarpunk, avevamo un po’ ragionato sulla parola e sul suo potenziale, e così è venuta l’idea del woodpunk, la nostra utopia forestale, le persone che vivono nel bosco non da curatori di un museo, ma come abitanti di un ecosistema. La prima stagione era stata molto di territorio, sulla gestione dei servizi ecosistemici, per la seconda volevamo parlare di persone, delle persone che vivono in questo spazio vasto e socialmente remoto che sono i boschi italiani. Sono esperienze umane molto diverse tra loro, il woodpunk è il filo che le lega: libertà, sperimentazione, un filo di anarchia funzionale.
Luigi — Stavamo viaggiando in macchina tra le curve delle Dolomiti, con tutta l’attrezzatura microfonica sui sedili posteriori, a caccia di voci per un altro podcast che abbiamo realizzato assieme, VAIA - Alberi, esseri umani, clima, nel terzo anniversario della tempesta che a fine 2018 ha sconvolto le foreste del nord-est. Io, come sempre, parlavo a raffica di idee futuribili e raccontavo a Ferdinando quanto mi sarebbe piaciuto raccontare storie vere, di persone in carne e ossa che la Gestione Forestale Sostenibile la costruiscono giorno dopo giorno nelle valli di montagna, tra le comunità, “sporcandosi le mani”. Persone spesso sconosciute, dimenticate dalla politica e soffocate da mille difficoltà operative, ma mossa da una passione commovente. All’improvviso, curva dopo curva, è uscita questa parola, woodpunk, che si lega a doppio filo con il movimento solarpunk descritto da Ferdinando nel suo interessante articolo. Con il senno di poi posso dire che quella parola è perfetta, perché intervistando i nostri woodpunk abbiamo scoperto piccole grandi storie di rivoluzioni, personali prima di tutto, ma anche professionali. Bisogna essere un po’ matti per dedicare anima e corpo alla gestione delle foreste in Italia… ma da questa follia nascono canzoni (anzi, scusate, esperienze di gestione forestale) straordinarie.
Tra i posti visitati e le persone incontrate, c’è un momento o un luogo in particolare che vi è rimasto nel cuore?
Ferdinando — Una volta ho fatto una passeggiata con Luigi dalle sue parti adottive, in Casentino, ed era, come direbbe Edward Norton a Marla Singer in Fight Club, un momento molto strano della mia vita, abbiamo fatto questa camminata lunga, Luigi dentro il bosco non è come Luigi che parla del bosco, è la sua versione turbo potenziata (se mai vi capita, ricordatevi di ricordargli che a un certo punto si deve mangiare), e a un un certo punto ho visto questo vecchio faggio dal basso, da una frattura di roccia nella Foresta Sacra della Verna, e ho pensato a quanti sforzi facciamo per raccontare una visione senza proiezioni emotive o antropomorfismi del bosco, e però in quel momento ho un po’ ceduto, perché ho proprio sentito — non so come dire — il confine della mia esperienza umana delle mie emozioni e l’inizio della mia esperienza vegetale delle emozioni, non so come spiegarlo meglio di così, ma quello che in me non trovava senso o spiegazione nella forma umana, ne ha trovata in forma vegetale, quel faggio mi ha fatto una forma di velocissima psicoterapia, ed era un punto del mio percorso dove non sarei mai arrivato senza Ecotoni e senza Luigi.
Luigi — Sempre durante il viaggio per la costruzione del podcast su Vaia ad un certo punto ci siamo persi, o meglio, la strada era giusta ma non trovavamo il luogo esatto in cui ci aspettava Omar, un operatore forestale (o se preferite un bravo boscaiolo), una delle figure fondamentali impegnate nei cantieri di ripristino dopo il passaggio della tempesta. Siamo usciti dalla macchina e ci siamo messi a girovagare in un silenzio surreale: attorno a noi i boschi graffiati dalla furia del vento ma anche tanti abeti rossi completamente secchi, morti in piedi a causa di un altro flagello, un insetto, il bostrico. La tempesta di vento a 200 Km/h e la pullulazione di questo insetto sono due eventi strettamente collegati, tra di sé e con la crisi climatica. Quella piccola valle silenziosa sembrava il set di un film post apocalittico. Ci guardavamo, io e Ferdinando, ma nessuno dei due riusciva a parlare.
In quel silenzio drammatico ho compreso, da un lato, l’importanza strategica di narrare storie come questa: mai prima di allora avevo sentito sulla pelle uno dei “motti” di Ferdinando: «Ogni storia, oggi, è anche una storia di cambiamento climatico».
Dall’altro lato ho avuto una visione, una di quelle che ti permettono di “unire i puntini” e costruire il disegno complessivo della narrazione. Ho capito quanto sia fondamentale la presenza degli esseri umani, delle comunità di montagna, di professionisti come Omar, in uno scenario di crisi del genere. Ho sentito, più forte che mai, quanto l’abbandono dei territori montani e rurali non sia affatto una buona idea e capito che quella parola tanto abusata - resilienza - è da applicare non solo a boschi e alberi ma anche a chi oggi resiste vivendo in montagna. La resilienza delle comunità è importante tanto quanto la resilienza degli ecosistemi.
La musica ha una parte super importante in Ecotoni, qual è la colonna sonora ideale di questo progetto?
Ferdinando — Non ci si crede a quanto il pop e il rock abbiano pescato nei boschi e negli alberi per la propria cosmogonia. C’è una vecchia canzone ecologista di Brian Wilson, A Day In The Life Of A Tree, che citai in una delle prime puntate. E poi c’è il bosco selva oscura, oscurissima, A Forest dei Cure, e la voce di Robert Smith è pericolosa come i rami che si avvinghiano alle caviglie in Evil Dead di Sam Raimi. E poi c’è un verso di De André che mi fa sempre piangere, di Hotel Supramonte, quando canta: «E ora siedo sul letto del bosco che ormai ha il tuo nome», che è davvero ecotonico nel senso della metamorfosi tra noi e il bosco, letto bosco nome, ogni piano è mescolato. E poi il mio verso forestale preferito, viene da una canzone dei Low che si intitola Like A Forest, Alan Sparhawk canta: «Black like a forest, still like a lion / My knees are bended / We used to speak a different language», inizia come un canto sacro o una marcia funebre, in questo modo di procedere che hanno le canzoni dei Low, e mi fa sempre un po’ pensare, scuro come una foresta, fermo come un leone. Spero che farai una playlist alla fine di questa intervista, giusto? (Vedremo, ndS).
Luigi — Io sono molto meno rockettaro rispetto a Ferdinando e amo la musica italiana, specie quella un po’ datata, cantautoriale, che è piena di belle citazioni forestali (un mio amico fece una tesi in Scienze Forestali analizzando le specie vegetali citate da De André e ne trovò a decine!). Non a caso in una delle prime puntate di Ecotoni ho citato il mio amato Guccini, un montanaro appenninico vero: «Vedere le foglie del cerro, gli intrichi del faggio, scoprire di nuovo dal riccio il miracolo della castagna». E poi in Ecotoni è entrata anche quella mitica canzone di Sergio Endrigo, Ci vuole un fiore, quella che tutti noi abbiamo canticchiato da bambini: «Per fare un tavolo ci vuole il legno…». Ecco, io quella canzone la amo e la odio, perché è bellissima ma… per fare il legno non basta l’albero! Ci vogliono anche un operatore forestale, un dottore forestale, un falegname… insomma, in quella bella storia del fiore manca un pezzo, un pezzo fondamentale, forse volutamente escluso: manchiamo noi! Ma anche noi esseri umani abbiamo un ruolo, può sembrare banale questa omissione di Endrigo ma è lo specchio di tanti problemi di percezione del rapporto tra esseri umani e foreste. Prima o poi, promesso, scriverò l’aggiunta che manca a quel testo (ma non fatemelo cantare, sono stonatissimo!). Infine, come non citare il buon Francesco Camin, bravissimo e giovane cantautore italiano (e dottore forestale!) che a Ecotoni ha donato la sigla… quella strofa «Vestirei le mie figlie con le foglie» a mio avviso è impareggiabile. C’è infine un’altra vecchia canzone che mi piace citare: La strada del bosco, un pezzo uscito nel 1943, mentre l’Italia era sotto le bombe. Quel “del” nel titolo mi ha sempre colpito, anche perché il ritornello è diverso, si dice: «vieni, c’è una strada nel bosco, il suo nome conosco, vuoi conoscerlo tu?». Mi colpisce perché da giornalista esperto di foreste ciò che faccio è proprio raccontare la strada dei nostri boschi: da dove vengono, dove stanno andando, come possiamo farli virare verso una strada sostenibile ma al tempo stesso utile ai nostri bisogni.
Comunque sia, le mille citazioni musicali in Ecotoni non sono mai, davvero mai, state “pianificate” a tavolino… ci escono proprio così, è più forte di noi!
Quali sono i libri, i podcast o le riviste da leggere per tenere gli occhi aperti sulla realtà?
Ferdinando — Che domanda gigantesca che hai fatto, Sam. Come si fa a rispondere? Ho appena letto Gli anni di Annie Ernaux (L’Orma) ed è un libro che mi ha colpito molto per come riesce a fare una cosa che solo le scrittrici più grandi, usare l’io come un noi e il noi come un io, è la storia collettiva e persone dello stare nel flusso del tempo che va dalla Francia del dopoguerra al presente, ed è il cammino della storia, e della gente, e anche degli individui, ed è uno di quei libri che ti aggiungono una diottria, sarebbe bello una versione di un libro come Gli anni ma sugli alberi e gli umani d’Italia, che nell’arco di tempo raccontato da Ernaux sono cambiati così tanto.
E poi la realtà è sempre una roba così sfuggente, noi facciamo i giornalisti, dobbiamo fingere che esista una cosa chiamata realtà, ma è un costrutto, un’ipotesi, è un’ipotesi che esista la realtà, e certi giorni mi sembra un’ipotesi forte e certi altri un’ipotesi debole.
Mi avevi chiesto dei consigli, lo so, ho letto l’ultimo numero di Altrove, la rivista della Società italiana per lo Studio degli Stati di Coscienza, e lì c’è davvero una prospettiva altra, nuova e stimolante su come stare nel mondo, e visto che qui siamo arrivati alla ricerca dell'ecotono spirituale, ho letto un libro eccezionale, lo ha scritto uno psichiatra basagliano eretico, Piero Cipriano, e si intitola Ayahuasca e cura del mondo (Politi Seganfreddo), ed è la prospettiva diametralmente opposta al nostro ecotono, però alla fine come cantano i Modest Mouse «If you go straight long enough you’ll end up where you were». C’è una linea di realtà in cui le piante sono soggetto e non oggetto, sono maestre, e sarebbe un’interessante evoluzione woodpunk, raccontare maestre di cosa.
Luigi — C’è una cosa che dico sempre agli studenti forestali quando li incontro in giro per l’Italia: «La vostra generazione ha mille sfighe, ma su una cosa siete fortunatissimi: l’enorme quantità di contenuti gratuiti e diversificati che possono contribuire alla vostra formazione». Quando ho studiato io c’erano solo i “sacri tomi”. Oggi ci sono un’infinità di bei prodotti che raccontano il mondo delle foreste da più punti di vista: ottime pagine social, siti web, libri, podcast, video clip, documentari, manuali, infografiche… la difficoltà in questo bel marasma sta nel capire a chi dare più fiducia, mantenendo sempre alta l’asticella dello spirito critico. Mi sento quindi di dare alcuni consigli a chi legge, guarda o ascolta contenuti legati a foreste, alberi, montagne, natura o ambiente in genere. Innanzitutto, se in questi prodotti trovate soluzioni semplici a problematiche drammaticamente complesse fate suonare il vostro “campanello mentale dell’allarme rosso” e tenete a mente la prima regola di noi forestali:
«A tutte le domande c’è prima di tutto una sola, fondamentale risposta: DIPENDE!».
Al tempo stesso, prendete sempre con le pinze chi umanizza alberi o animali, paragonando i loro funzionamenti naturali ai nostri, dando loro doti intellettive o valoriali uguali alle nostre. Sono espedienti narrativi spesso efficaci, interessanti, ma anche molto pericolosi, occorre sempre maneggiarli con molta cura e mente aperta, sì, ma anche lucida. Infine, devo confessarlo, a me non piacciono quei prodotti di comunicazione in cui il messaggio è solo e soltanto la bellezza della natura, il cui obiettivo è insomma quello di fare innamorare le persone della natura. Sono prodotti utili e spesso molto belli, non lo nego, ma cedo che la vera sfida di oggi, nel mezzo della crisi climatica e della biodiversità, non sia più quella di divulgare una generica bellezza della natura, ma quella di indagare e raccontare come sia possibile costruire un equilibrio tra noi esseri umani, sempre più presenti e impattanti sul Pianeta, e l’ambiente da cui necessariamente traiamo spazio, beni e servizi.
Un’ultima cosa, prima di concludere il Dispaccio di oggi!
Per la Giornata della Terra, Ferdinando Cotugno e io abbiamo creato una playlist collaborativa su Spotify per raccogliere (prendo in prestito le parole di Ferdinando) «la musica che ci sembra adatta alla speranza, al futuro, alla costruzione di mondi nuovi, ad attenuare l’ecoansia o almeno trovarle un posto sonico».
Puoi ascoltarla e condividerla, ma anche aggiungere delle canzoni per costruire la colonna sonora della sua newsletter, Areale, e dei Dispacci. Eccola qui:
E tu, vuoi raccontarmi la tua esperienza con i suoni della natura? Come sempre, se hai domande, consigli, se non dormi, se pensi che parole e musica possano e debbano cambiare il mondo: scrivimi.
A presto,
Samantha