#81. Spiraglio
C'è un festival che ha fermato una guerra in Sahel; ci sono tre voci da ascoltare in cui le melodie si intrecciano all'impegno civile.
Qualche settimana fa, un festival musicale ha sospeso una guerra: sembra un’assurdità, eppure è accaduto veramente. Al calar del sole, le note hanno eclissato gli spari. In Mali si apriva così uno spiraglio di pace, tanto luminoso da portare con sé la garanzia amara di essere effimero.
Il Sahel corre dalle coste atlantiche agli altopiani etiopi, attraversa le sabbie sahariane e le grandi foreste equatoriali in un mosaico di comunità, lingue, sistemi sociali e culturali. È un territorio fragile, trafitto da antiche ostilità, scontri recenti e vittima della crisi ambientale. Le guerre che dilaniano il Sahel, come quella che sconvolge il Sudan dalla scorsa primavera e che sembra precipitare di giorno in giorno, sono spesso confinate ai margini delle cronache, ma non per questo sono meno crudeli.
Ciao !
Quando tra le pagine di giornale o nelle sequenze video si impongono i conflitti, mi rendo conto di quanto possa essere difficile comprendere la distruzione, di quanto l’esercizio dell’empatia richieda attenzione e costanza. Qualche tempo fa ho ricordato Il canto della pace di Shaden Gardood, artista sudanese uccisa in guerra, e mi domando sempre, pressoché ogni giorno, che ruolo possa avere davvero la musica in tutto questo.
Oltre a creare uno spiraglio di sollievo, la musica si trasforma nell’espressione di sofferenza e rabbia; diventa veicolo di un messaggio universale di speranza; è un potente strumento di denuncia sociale e politica, in grado di abbattere ogni confine.
Vorrei, e so di non essere la sola, che il ruolo fondamentale della cultura nella società non venisse trascurato; che la musica, nello specifico, fosse un punto di partenza per scoperte, approfondimenti e riflessioni.
Il Dispaccio di oggi è approdato nell’Africa settentrionale, alla scoperta di un festival musicale che ha fermato la guerra in Mali, per poi dedicarsi all’ascolto di tre voci, impegnate anche nella difesa dei diritti umani e civili: Angélique Kidjo, Hawa Al-Tagtaga e Salif Keita.
Melodie che fermano la guerra
Qualche settimana fa, a Timbuctù è avvenuto qualcosa di straordinario. La città, dallo scorso agosto, è sotto assedio dei jihadisti. Un assedio feroce come questa pratica sa essere, che taglia le forniture, impedisce l’accesso alle strutture sanitarie, soffoca la vita in ogni gesto quotidiano oltre ogni possibile immaginazione.
Con la mediazione della comunità locale, l’assedio è stato temporaneamente sospeso: i camion con viveri e carburante hanno ricominciato a percorrere le strade polverose, le persone a uscire di casa. Tutto questo con l’unico obiettivo di inaugurare l’ottava edizione del festival musicale dal nome che è un simbolo vibrante: Vivre Ensemble, vivere insieme.
Il festival, due settimane di normalità in una terra devastata dagli scontri tra esercito, gruppi ribelli, jihadisti e mercenari, è nato anni fa con il sostegno della Missione delle Nazioni Unite in Mali. Da allora, all’ombra del monumento Flamme de la Paix, ha rappresentato un inno alla pace.
Durante il giorno le bancarelle dei commercianti hanno animato le vie delle città, l’eco dei combattimenti è stata sostituita dalle grida dei venditori. Al tramonto la musica si è diffusa per le vie, oltre i tetti delle case e verso il deserto, con artisti provenienti da tutto il paese e da quelli vicini. Il coprifuoco è stato annullato, la musica è diventata colonna sonora di una ritrovata quotidianità: c’è ancora chi pensa che la musica non serva proprio a niente?
Inoltre, Vivre Ensemble, più di ogni altra cosa, è un simbolo. Ricorda il senso di comunità e solidarietà innato nella musica, ispira a superare le difficoltà con soluzioni concrete; è una voce di speranza e resistenza che imprime, anche nelle peggiori circostanze, l’importanza di andare avanti.
La musica, con la sua potenza universale, ha sempre svolto un ruolo cruciale nel plasmare la storia e nell’esprimere le emozioni umane più profonde. In particolare, quando il mondo è sconvolto da conflitti e guerre, gli artisti utilizzano la loro arte come strumento di protesta, consapevolezza e cambiamento. Attraverso note, ritmi e parole, è possibile cercare una via per fermare la violenza, promuovere la pace e ispirare la solidarietà tra i popoli.
La lingua universale coniata da Angélique Kidjo
Tra le voci che hanno dedicato la propria vita alla lotta per i diritti umani c’è la cantante, compositrice e attivista beninese Angélique Kidjo, una dea della musica contemporanea.
Per tutta la lunga carriera, Kidjo ha forgiato un linguaggio universale, inglobando nella sua musica elementi da generi come il jazz e la samba, innestando su di essi i germogli della tradizione di quel paese strategico, punto di contatto tra il Sahel e il Golfo di Guinea che è il Benin.
Tra i suoi dischi c’è Eve (429 Records, 2014), un viaggio per l’intero continente africano durante il quale registra i canti di lavoro delle donne, che poi rinascono lucenti tra le sue canzoni. È un esempio di come la musica possa unire le persone attraverso confini e lingue e, come ha dichiarato in un’intervista di qualche mese fa: «La musica resetta il cervello. È il mio respiro, il mio scopo: è ciò che mi aiuta a cambiare il mondo».
La lezione di Hawa Al-Tagtaga
La sua figura, avvolta nella tobe verde, gialla e blu che ricorda la prima bandiera dell’indipendenza, oggi è un’icona femminista in Sudan. Hawa Al-Tagtaga è stata una cantante e attivista famosa sia per la sua voce sia per il suo impegno contro il colonialismo britannico, attività che le ha fatto guadagnare, oltre alla fama imperitura, un proiettile in corpo e qualche mese di prigione.
Negli ultimi anni, facendosi chiamare Hawa’s girls, una generazione di artiste ha raccolto la sua eredità, cantando canzoni politiche nelle case e nelle piazze, facendosi portabandiera del coraggio e della voglia di cambiare il mondo a squarciagola.
Tra loro c’è anche Alaa Salah, conosciuta come la donna simbolo della rivoluzione sudanese e immortalata in numerose foto che la vedono, avvolta nelle vesti bianche, incitare la folla.
L’anima d’oro di Salif Keita
Nelle sue melodie, la musica mande si fonde nel vortice del jazz e nella lucentezza del pop: Salif Keita, originario del Mali, oggi è uno degli artisti contemporanei più conosciuti, ma anche un attivista per i diritti umani, in particolare delle persone con disabilità.
A causa del suo albinismo — stigma che vede ancora oggi molte vittime in diversi Paesi africani — venne emarginato dalla sua comunità e dalla sua famiglia che non appoggiò il suo sogno di diventare un musicista. Sogno che tuttavia si è realizzato e lo ha reso oggi uno degli artisti più famosi al mondo. I brani del disco Soro (Syllart Productions, 1987) abbracciano percussioni, cora, tastiere elettroniche; Soro è l’inizio dell’ascesa di Keita, un disco in cui immergersi senza remore.
Così, il Dispaccio di oggi finisce qui. Hai ascoltato musiche che ti hanno fatto riflettere, di recente? Raccontamelo, sono sempre curiosa di scoprire nuove esperienze.
Ne approfitto per ricordarti che su Spotify trovi la playlist con le musiche intercettate lo scorso anno:
Ci ritroviamo qui tra un paio di settimane, aspetto tue, se ti va di scrivermi qualche riga, e ti mando un abbraccio. Intanto grazie a Silvia!
A presto, stai bene!
Samantha
Che bella newsletter! Non la conoscevo. Mi sono iscritta 💜