#89. Suoni della Terra
Un numero speciale che unisce Linguetta e Dispacci, per ascoltare i suoni della terra e costruire il futuro con la speranza.
Che aspetto ha il nostro futuro e cosa possiamo fare, ogni giorno, per immaginarlo e trasformarlo nel migliore possibile?
Ecco la domanda che mi faccio più spesso, negli ultimi anni, e so di non essere la sola. Anzi. Possiamo iniziare già da ora ad agire: come? Prestando attenzione a due elementi: l’ascolto e le parole.
Il prossimo 22 aprile si celebra la Giornata della Terra, e per l’occasione i Dispacci e
si uniscono in un’edizione speciale: per ascoltare il nostro Pianeta e dare valore ai suoni che definiscono l’ambiente che ci circonda, ma anche per avere cura di noi stessi e di chi ci sta accanto; per imparare, scegliere e usare le parole che possano aiutarci a costruire una cultura del cambiamento, iniziando dalle nostre menti e dai nostri gesti quotidiani, anche i più semplici.Così, prende ispirazione dal film Dune per raccontare come i suoni definiscono il mondo che abitiamo, ma anche la fantasia e la memoria, riconnettendoci all’ambiente e aumentando la consapevolezza della sua salvaguardia.
Insieme a me, viaggeremo poi tra le vedute maestose e i dettagli del documentario Songs of Earth; scopriremo le migrazioni umane raccontate attraverso la musica dallo spettacolo Nomadic; e ascolteremo il nuovo disco di Adrianne Lenker, registrato nel cuore di una foresta.
Suoni che costruiscono il mondo
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Ancora prima di vederli, gli ornitotteri di Dune li senti; e li senti in un’intersezione di suoni diversi: le fusa di un gatto, il tessuto di una tenda che sventola in una tempesta, il battito di ali di uno scarabeo – come raccontato dall’ingegnere del suono Mark Mangini.
Ogni elemento sonoro dell’universo inventato di Dune porta con sé il ricordo di un suono familiare. Sono suoni simbolici, che arricchiscono i sensi di chi guarda. E un simbolo ‘mette insieme’, riunisce cose che stanno in un altrove ma di cui possiamo fare comunque esperienza.
I suoni sono un linguaggio a cui siamo sempre espostə, perché possiamo chiudere le palpebre per oscurare il mondo ma non possiamo chiudere le orecchie. E la differenza tra vista e udito sta nella rispettiva materia d’attenzione: fisica per la vista, emotiva per l’udito.
L’ascolto permette di orientarci più in profondità, ad esempio cercando di isolare un suono in un contesto complesso. Praticando una specie di superascolto.
Che è un po’ quello che ci consente di fare in una sonosfera il lavoro del compositore e professore di ecoacustica David Monacchi, dal 1998 in giro per foreste primordiali di Africa, Amazzonia e Borneo con il progetto Fragments of extinction: cioè un archivio sonoro di specie e comunità animali di quelle foreste, e un monito di consapevolezza sulla biodiversità messa in crisi dai comportamenti umani.
Se distruggiamo la natura, distruggiamo anche i suoni: salvare i suoni dall’inascolto equivale a quello che può fare la lingua: dare parole a chi non le ha.
In una bella conversazione con Edoardo Camurri, David Monacchi dice: «Nel tentativo di catalogare i suoni, quanti sono rimasti inauditi? I nativi di quelle foreste li conoscono. Noi ad esempio nelle foreste del Borneo abbiamo fatto 24 ore di registrazioni, e a livello di insetti siamo arrivati alle famiglie, perché le specie di quelle foreste non sono state descritte nemmeno a livello biologico. Stiamo perdendo quello che non conosciamo».
Gli ecosistemi si stanno decomponendo a causa delI’impatto umano sul cambiamento climatico, perciò serve scrivere una nuova composizione che accolga i gesti sonori degli spazi incontaminati.
Immergersi in questi paesaggi sonori ci ricorda che i suoni costruiscono il mondo, e ci entrano dentro da quei due labirinti ai lati del nostro cranio. Trovare il modo di percorrere quelle reti di vita acustica ci aiuta a riconnettere i sensi all’ambiente, a sentire l’urgenza di salvarlo.
Serve ad ascoltare la musica del pianeta Terra.
Frontiere sonore
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Ascoltare il canto della terra con Songs of Earth
Le parole che inaugurano e concludono la visione di Songs Of Earth, impresse sullo schermo del cinema Arlecchino di Milano, risuonano in bilico tra monito e preghiera: «Our first love was nature. Let’s not forget our first love» («Il nostro primo amore è stata la natura. Non dimentichiamo il nostro primo amore»). Tra i due poli, si susseguono immagini stupefacenti, una fotografia maestosa e il sonoro immersivo del film-documentario di Margreth Olin, regista e interprete principale, che non vediamo mai apparire nell’inquadratura. Nella storia, Olin fa ritorno a Oldedalen, in Norvegia, dove abitano gli anziani genitori, e trascorre un anno intero filmando lo scorrere del tempo e l’alternarsi delle stagioni. Seguendo il padre camminare tra vallate e arrampicarsi per sentieri impervi, nel fluire di ricordi e pensieri Olin prova a capire ciò che lega la sua famiglia a quella terra in modo viscerale.
Il risultato è un film, prodotto da Wim Wenders e Liv Ullmann, che cattura con la stessa vivida espressività spazi infiniti e dettagli infinitesimali. La natura si anima, poi, nello scricchiolio dei ghiacci, nel rombo delle cascate, nei lunghi e apparenti silenzi come li avrebbe amati John Cage per la sua 4’33’’, la composizione che ha per protagonisti i suoni dell’ambiente circostante: una quiete punteggiata dal gorgoglio di un temporale lontano o dallo stormire di milioni di aghi sempreverdi sferzati dal vento.
È il sound designer Tormod Ringnes a incastonare i suoni della natura nella colonna sonora di Rebekka Karijord, eseguita dalla London Contemporary Orchestra. Nasce così un’opera cinematografica sonora maestosa, una sinfonia che racchiude in sé le canzoni della terra, i timbri degli elementi, l’armonia del tutto, punteggiata di riferimenti alla poesia di Walt Whitman.
E di questo si tratta: allacciare i nostri sensi al cuore e ricordare quanto prezioso e fragile ciò che ci circonda può essere. Quanto inestimabile sia ciò che nel quotidiano diamo per scontato. Perché tutto inizia e finisce con la natura, in ogni nostra scelta.
La canzone della Terra (Songs of Earth) è al cinema il 15, 16, 17 e 22 aprile.
Nomadic racconta le migrazioni tra scienza e arte
Nelle prime righe della Dichiarazione di New York per i rifugiati e i migranti, adottata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite nel 2016, si afferma che: «Fin dai tempi più remoti, l’umanità è stata in movimento». Le ragioni sono molteplici, e vanno dalla ricerca di nuove prospettive e opportunità economiche, alla fuga da guerre, carestie e violazioni dei diritti umani. Già otto anni fa si notava altresì che migrare è anche una risposta agli effetti disastrosi dei cambiamenti climatici, alle catastrofi naturali che ne derivano e ai fattori ambientali che non rendono più degna e possibile la vita in un luogo. E spesso, troppo spesso, tutte queste ragioni sono connesse tra loro.
Dalle migrazioni come caratteristica comune dell’umanità nasce Nomadic. Canto per la biodiversità, uno spettacolo con i testi e la voce narrante di Telmo Pievani e le musiche di Gianni Maroccolo. Arte e scienza, ricerca e ispirazione possono unirsi per rendere accessibili i contenuti, coinvolgere chi assiste, innescare consapevolezza: solo così è possibile osservare il presente senza pregiudizi e guardare al futuro con fiducia e nuove idee. Le musiche in scena pescano nel repertorio di Philip Glass, Franco Battiato, C.S.I. e Marlene Kuntz, solo per citare alcuni nomi; sul palco ci sono anche Angela Baraldi, Andrea Chimenti, Antonio Aiazzi, Beppe Brotto e Simone Filippi.
Il debutto di Nomadic è il 19 aprile al Festival delle Scienze di Roma.
Il disco di Adrianne Lenker nato nella foresta
Dalle prime battute del brano Real House si percepisce che ogni dettaglio sonoro, ogni accordo e ogni apparente interferenza saranno parte di un universo musicale incantevole.
Bright Future, il nuovo album solista di Adrianne Lenker, nasce in uno studio nascosto nella foresta, tra lo scricchiolio di antiche travi di legno e il profumo di resina. Per guardare al futuro, la voce dei Big Thief elimina ogni orpello, dissotterra le radici folk, accoglie l’istintività della presa diretta e l’alchimia che nasce dall’improvvisazione. Al suo fianco c’è di nuovo l’ingegnere del suono Philip Weirobe, con lei anche per Songs/Instrumental, doppio album registrato praticamente in presa diretta in un capanno isolato del Massachusetts.
L’ambiente sembra essenziale per Lenker, che nelle note di pubblicazione del disco afferma: «Sembrava che il sistema nervoso di tutti si fosse sbloccato».
Così, tra i pannelli di ciliegio del Double Infinity Studio, le registrazioni magnetizzano i dettagli: le corde che scivolano sotto dita veloci, le pressioni variabili sui tasti del pianoforte, le inflessioni della voce; chitarra, violino e piano riverberano nella quiete e assorbono linfa vitale dall’ambiente, guardando, davvero, verso il futuro con cristallina speranza.
Il Dispaccio di oggi, featuring Linguetta, si conclude qui.
Se ti va di leggere altre storie sonore, puoi dare un’occhiata all’archivio.
Per quanto non sia solita farlo, ho condiviso una mia foto scattata un paio di anni fa in Islanda, una terra dove ascoltare realmente e in ogni istante i suoni che permeano il mondo, dai più intensi ai più sottili. E tu, ascolti i suoni della Terra? Cosa ti raccontano di questo pianeta stupendo e fragile?
Grazie ancora ad Andrea M. Alesci per aver condiviso il cammino; e grazie a Silvia Morosi, l’occhio magico della lettura finale.
A presto, stai bene e scrivimi.
Samantha
Ascoltare i suoni è una cosa che spesso si perde nel rumore delle città. Torna viva quando siamo in campagna, in montagna, dove i sensi si risvegliano dal torpore cittadino.
I bambini sono i primi uditori curiosi. Quando mia figlia di 19 mesi sente qualcosa di nuovo, un suono, un rumore, mi domanda sempre "Chi è?". Una domanda tanto semplice che da adulto dai quasi per scontata, ma che aiuta proprio a connettersi meglio con il mondo.
Basta un cinguettio per aprire un sorriso.
La meraviglia che avete fatto 🥰