Trump se ne vuole impossessare, lei risponde con voci e tamburi: la Groenlandia riafferma la sua identità a ritmo di musica.
Ciao !
Il Dispaccio di oggi guarda a nord, dove la geopolitica segna l’attualità e le proteste si alzano contro nuove forme di violenza. È inoltre lì, tra i ghiacci, che la tradizione inuit torna a farsi sentire e diventare, oggi più che mai, simbolo di resistenza culturale.
La musica inuit dal silenzio alla ribellione
«In che mondo vive Donald Trump? Dovrebbe vergognarsi!» tuona Rasmus Lyberth dopo il concerto al Teatro Skive, nell’omonimo capoluogo dello Jutland Centrale, in Danimarca. Il celebre cantautore groenlandese sceglie la data finale del tour con Julie Berthelsen per rompere un lungo silenzio politico e difendere la sua terra, come si legge sul quotidiano Skive Folkeblad.
Alcune settimane fa, prima dello spettacolo, i media hanno raccontato la grande manifestazione di Nuuk, dove in migliaia hanno protestato contro le mire espansionistiche di Trump, attratto dalla posizione strategica e dalle risorse naturali, sulla Groenlandia.
Senza fare direttamente il nome del presidente americano, ma il riferimento è inequivocabile, anche Berthelsen sottolinea durante la performance che il messaggio è quello di sempre: «Amore, comunità e pace» intonando, in groenlandese, Nella terra del silenzio (il titolo è ovviamente tradotto). In sala c’è chi capisce la lingua e chi no, ma tutti sono coinvolti dall’energia che parole e melodie emanano.
Attraverso la musica, prende forma un potente messaggio di orgoglio: la Groenlandia appartiene al suo popolo, che non intende venderne l’anima.1
Di canti perduti e tamburi proibiti
L’affermazione identitaria di Lyberth e Berthelsen affonda le radici in una storia di repressione culturale lunga secoli. La tradizione musicale inuit – come le danze con il tamburo2 e i canti gutturali3 – è sopravvissuta a fatica all’impatto con il colonialismo europeo.

A partire dal XVIII secolo, l’arrivo di missionari danesi e moravi in Groenlandia ha portato di fatto a una cristianizzazione forzata, risultata nel soffocamento delle espressioni artistiche autoctone.
Già nel 1721 il pastore luterano Hans Egede, fondata la colonia di Godthåb (l’odierna Nuuk) avvia la conversione degli inuit. E per gli evangelizzatori, i canti tradizionali con il tamburo — spesso legati a figure spirituali come gli angakkuit (sciamani) — sono pratiche diaboliche da eliminare.
Anche le antiche feste del solstizio d’inverno, fulcro della vita comunitaria inuit, sono proibite nelle nuove missioni, e al loro posto compaiono rituali e inni cristiani.
I resoconti dell’epoca descrivono un vero scontro sonoro tra due mondi: da un lato gli inuit che, infastiditi dai cori europei, rispondono ai missionari con canti di scherno accompagnati dai loro tamburi — una sorta di resistenza acustica documentata già nel 1736. Dall’altro, i predicatori determinati a imporre l’egemonia culturale della Chiesa anche attraverso la musica.
«I canti al tamburo e i duelli canori erano centrali nella vita spirituale e sociale inuit, ma i missionari li giudicavano pratiche pagane e superstiziose da rimpiazzare con inni e preghiere cristiane», spiega la storica Asta Mønsted. «I tamburi furono confiscati o distrutti per spezzare il legame con le credenze pre-cristiane».4
In molti insediamenti, le persone anziane inuit nascondono i loro qilaat (tamburi cerimoniali) per evitarne la requisizione. Nel frattempo, i moravi istituiscono scuole di canto corale a Nuuk, per “mettere ordine” nelle voci locali secondo il gusto europeo.
Entro la metà del Settecento, i missionari si vantano che gli inni sacri hanno ormai soppiantato i canti tradizionali in buona parte della Groenlandia.
La musica ancestrale inuit – un tempo cuore pulsante di ogni villaggio – sopravvive solo in segreto e, per molte generazioni di groenlandesi, il silenzio imposto dalla Chiesa cala sulle melodie originarie.5
Il suono del risveglio
Oggi quel silenzio è stato rotto. La Groenlandia sta vivendo una rinascita culturale in cui è la musica a imporsi.
Le nuove generazioni di artisti groenlandesi rivendicano la propria identità innanzitutto attraverso il canto e la lingua, come fa Tarrak, nome d’arte di Josef Tarrak-Petrussen, rapper e attivista di Nuuk.
A vent’anni è il primo musicista groenlandese a salire sul palco del Roskilde Festival in Danimarca, nel 2023: a torso nudo, con la scritta kalak (termine gergale che significa “groenlandese”) dipinta sul petto, Tarrak ha urlato a pieni polmoni rime nella sua lingua madre, il kalaallisut. La sua performance ha avuto la potenza di un manifesto: denuncia il passato coloniale danese e al contempo sprona i groenlandesi a “svegliarsi” da ogni complesso di inferiorità.
«Voglio che i miei figli crescano in una Groenlandia in cui non abbiano bisogno di imparare il danese per assicurarsi un futuro migliore»
Tarrak, JONAA
Questo messaggio — l’auspicio di un futuro in cui la lingua e la cultura locali abbiano piena dignità — risuona con forza. Nei suoi brani, Tarrak racconta inoltre, in groenlandese, le ferite aperte della società: discriminazione, alcolismo, suicidi, il dolore di sentirsi cittadini di serie B nella propria terra.
La canzone Tupilak, ad esempio, è diventata un inno generazionale e un caso mediatico. Nel videoclip, Tarrak rappa ai piedi della statua di Hans Egede — considerata simbolo del colonialismo — urlando «Groenlandesi, svegliatevi! Ci guardano dall’alto».
Il brano, accompagnato da sottotitoli in inglese, è presto diventato virale sui social, costringendo molti danesi a confrontarsi con un passato (e un presente) scomodo, ma soprattutto ha scosso i coetanei di Tarrak: basta accettare pregiudizi e complessi come norma inevitabile, dichiara il ritornello, è ora di reclamare parità di diritti e orgoglio per la nostra identità.
Non c’è solo il rap nella riscossa culturale groenlandese: rock, pop, canto corale e perfino il recupero del canto tradizionale stanno contribuendo a rinsaldare l’identità nazionale. Molti musicisti oggi incidono brani in kalaallisut, rilanciando una lingua che durante il dominio coloniale è stata relegata negli scantinati. In parallelo, riemergono antichi simboli: dai tamburi cerimoniali, tornati a echeggiare in alcune festività locali, ai tatuaggi facciali in stile inuit che ornano con orgoglio i volti di una nuova generazione.
«Con i tatuaggi mi sono ripreso la mia identità. Volevo essere un Inuk orgoglioso», spiega lo stesso Tarrak, che sfoggia sul mento i tradizionali lineamenti tatuati un tempo vietati dal clero.6
È in atto un vero risveglio: arte e musica diventano terapia collettiva, strumento di denuncia ma anche di guarigione dalle ferite storiche; sullo sfondo c’è una nuova consapevolezza politica.
La rinascita culturale va di pari passo con il dibattito sull’autonomia: i groenlandesi di oggi, forti di una ritrovata identità, reclamano maggiore controllo sul proprio destino. E la musica è il mezzo con cui questa consapevolezza viaggia dalle remote coste artiche raggiungendo le piazze virtuali del mondo intero.
Cultura e autodeterminazione
Dalla protesta di Nuuk alle rime di Tarrak, un lungo percorso intreccia cultura e autodeterminazione. Per una terra colonizzata, riscoprire la propria musica, lingua e storia equivale a riconquistare sé stessa.
La determinazione con cui un artista come Rasmus Lyberth difende l’anima groenlandese dimostra come l’identità culturale non sia liquidabile come semplice “folklore”, bensì rappresenti una pulsione aggregativa in difesa della collettività e, per conseguenza, dei diritti fondamentali.
Quel che è stato messo a tacere per secoli riecheggia oggi come canto di resistenza. Le note portano con sé la memoria delle ingiustizie subìte e insieme la speranza di un futuro diverso. In definitiva, la musica si rivela uno strumento politico potente: ha tenuto vivo lo spirito di un popolo nei periodi bui e ora ne alimenta l’orgoglio e la volontà di riscatto.
Quando una cultura torna a far sentire la propria voce, quella voce può cambiare la storia. E in Groenlandia il coro inuit che riecheggia tra i ghiacci è il segno che un nuovo capitolo – fatto di dignità e autodeterminazione – è appena iniziato.
Qualche approfondimento groenlandese
Alcuni spunti per approfondire il tema Groenlandia? Eccoli:
Una raccolta di canti tradizionali inuit registrati tra Groenlandia e Canada dall’etnomusicologo Michael Hauser:
Il reportage Tra gli Inuit della Groenlandia che non vogliono Trump: non siamo né danesi né americani di Veronica Fernandes, Rainews24
Sui social di Ti Porto a Nord, Marica condivide approfondimenti sulle terre artiche (ed è una guida preparata, ne ho le prove!)
Dopo un’incursione al nord, il Dispaccio di oggi si conclude qui!
Prima di salutarti, ti lascio la registrazione della prima diretta dei Dispacci e Mappe di (e grazie infinite a chi c’era, a chi ha recuperato il video, a chi ci vorrà dedicare del tempo!):
Dispacci e Mappe Live: le proteste che infiammano l'Europa
È stato un esperimento, ci è piaciuto molto. Grazie a tutte e tutti per averci raggiunto, ascoltato e commentato!
Come sempre, lasciami un cuore o un commento, creiamo un legame, la musica è una forma di resistenza tanto quanto di unione.
Ci risentiamo tra due settimane!
Samantha
Ole Dall, Rasmus Lyberth i Skive: -Trump bør skamme sig (trad. Rasmus Lyberth a Skive: «Trump dovrebbe vergognarsi»), in “Skive Folkeblad”, 2025.
Danza e canto con il tamburo sono forme di espressione artistica e musicale inuit, iscritte nel 2021 nella Lista rappresentativa del patrimonio culturale immateriale dell’umanità dell’Unesco.
Il canto gutturale inuit, o katajjaq, è interpretato da due donne che cantano faccia a faccia, senza accompagnamento strumentale, in una gara di resistenza.
Luis Andres Henao, Greenlanders embrace pre-Christian Inuit traditions as a way to proudly reclaim ancestral roots, in “The Associated Press”, 2025.
Rafael Torra, David Cranz’s “Historie von Grönland, in “NEMoS”, 2024.
Nauja Bianco, Greenlanders - Wake Up!, in “JONAA”, 2024.
Splendido articolo, grazie Samantha ! ❤️🌷
Grande forza di resistenza della Groenlandia . Che i tamburi ne siano la colonna sonora! Grazie Samantha per questo bel reportage.