La lotta per la libertà contro ogni tipo di oppressione può unire musica e religione, oltre ogni confine.
Ciao !
Quando ho visto per la prima volta su ARTE il documentario Alla scoperta del punk musulmano, sono rimasta folgorata dall’energia di realtà come Ikhras, Zoufriya, Zanjeer. Nelle loro esperienze, musica e religione, ribellione e fede, punk e Islam si intrecciano in un movimento che si oppone ai sistemi oppressivi e agli abusi di potere. Così, giovani artiste e artisti danno voce a chi, in ogni parte del mondo, rivendica con forza la propria identità e la libertà di espressione, di scelta, di fede. Una risposta potente a una società che, troppo spesso, emargina e rifiuta la religione che professano.
Dubbio, ribellione e trasformazione
«In una società in cui l’Islam è spesso stigmatizzato o rifiutato, rivendicare questa fede è, forse, la provocazione punk assoluta» racconta Hajar Ouahbi, giornalista e regista del documentario di ARTE Alla scoperta del punk musulmano.
L’Harami Punk — che può essere tradotto come “punk proibito” — ha una lunga storia alle spalle, la cui prima pagina può essere scritta dalla band britannica Alien Kulture, fondata alla fine degli anni Settanta e considerata archetipo del punk musulmano. Continua poi nel Taqwacore, movimento nato negli Stati Uniti all’inizio degli anni Duemila, e che dopo l’11 settembre 2001 impone una risposta all’islamofobia dilagante.1 Il termine unisce taqwa (“pietà”, in arabo) e hardcore, e da subito ha rappresentato una forma di resistenza culturale e politica.

Oggi l’Harami Punk è un movimento che non ha più intenzione di negoziare la propria identità. Ha abbandonato l’inglese per cantare anche in arabo, urdu, persiano: lingue rivolte a chi condivide esperienze, valori, immaginari. E non si tratta di una chiusura, bensì del desiderio da un lato di parlare direttamente alle proprie comunità, dall’altro di radicarsi nella scena underground mantenendo stile e identità riconoscibili.
Inoltre, il punk è, per sua stessa natura, un genere politico, usato per veicolare messaggi contro discriminazioni, oppressioni e ingiustizie. Così, dal Nord America passando per le diaspore, fino a raggiungere il Marocco, il Pakistan, l’Indonesia, i suoni del Taqwacore e dell’Harami Punk arrivano al cuore di una generazione in cerca di riferimenti e riscatto.
Per approfondire la complessità della scena, ho intercettato Hajar Ouahbi e con lei ho parlato di musica come resistenza, del ruolo delle artiste, di identità e libertà.
Il Muslim Punk incarna una duplice forma di resistenza, sia contro i pregiudizi esterni sia contro le aspettative interne alle comunità musulmane. In che modo le artiste e gli artisti del tuo documentario affrontano questa doppia sfida e quale impatto pensi che abbia la loro musica sul pubblico?
Ouahbi — Le artiste e gli artisti del documentario si fanno strada in questa duplice resistenza utilizzando il punk non come genere fisso, ma come strumento di espressione personale. Sia che critichino il razzismo e l’islamofobia nelle società occidentali, sia che affrontino il rigorismo religioso e i tabù sociali all’interno delle loro comunità, la loro musica diventa uno spazio di onestà e di sfida. Uno come Hassan degli Zanjeer, ad esempio, chiama apertamente in causa i talebani (mettendosi in pericolo) e affronta anche i pregiudizi occidentali in luoghi come la Germania.
La loro musica entra in risonanza con il pubblico che si sente similmente in bilico tra sistemi di potere e silenzio, fornendo uno sbocco raro e catartico per le voci emarginate.
Il tuo documentario evidenzia l’intersezione tra musica, identità e attivismo. Vedi il Muslim Punk come un movimento globale o è ancora radicato in specifici contesti regionali e socio-politici?
Il Muslim Punk opera su entrambi i livelli. Mentre il primo movimento Taqwacore aveva forti radici in Nord America ed era influenzato dalla percezione occidentale dell’Islam, ora si è evoluto in qualcosa di più globale e decentralizzato.
Band in Indonesia, Pakistan e Marocco si stanno impegnando attivamente con il punk per criticare questioni come la violenza di Stato, il capitalismo e il fondamentalismo religioso all’interno dei loro contesti.
Per esempio, la copertina dell’EP della band marocchina Takbir (che raffigura una palla di cannone che distrugge la Mecca) critica audacemente il capitalismo islamico a guida saudita. Sebbene ci sia un filo conduttore globale di dissenso e identità, ogni band parla comunque del proprio ambiente socio-politico.
La musica è storicamente uno strumento di protesta e di cambiamento sociale. Dal tuo punto di vista, in che modo l’energia del punk aiuta a rompere le barriere per gli artisti musulmani e cosa speri che il pubblico possa trarre dalle loro storie?
L’energia cruda e l’etica anti-establishment del punk si allineano naturalmente con le frustrazioni che molti artisti e artiste di fede musulmana provano, che si tratti di sorveglianza, razzismo o conservatorismo nelle loro comunità. Poiché il punk non chiede il permesso, crea uno spazio per essere non apologetici, anche quando i loro messaggi sono scomodi.
Spero che il pubblico si renda conto che artiste e artisti non si ribellano solo per il gusto di farlo: offrono critiche complesse e profondamente personali che sfidano le narrazioni tradizionali sia sull’Islam sia sul punk stesso.
Le artiste devono spesso affrontare ulteriori difficoltà in scene musicali dominate dagli uomini. Cosa hai osservato sul ruolo, le sfide e i contributi delle donne nel movimento?
Le artiste punk musulmane devono affrontare una salita particolarmente ripida. Spesso sono stigmatizzate non solo dalla società in cui vivono, ma anche all’interno della loro stessa comunità. Alcune si trovano completamente isolate.
La loro presenza nel movimento è fondamentale: sfidano le norme patriarcali sia nella musica sia negli spazi culturali o religiosi.
Ma la stigmatizzazione non si limita alle donne. Come mostra il film Dima Punk,2 anche i punk maschi possono essere emarginati, accusati di essere “satanisti” o “deviati”. Tuttavia, le donne hanno spesso un peso in più: il loro contributo è ancora più forte.
Hai spiegato l’origine e la differenza tra Taqwacore e Harami Punk, che combinano la filosofia anti-sistema del punk, un messaggio di tolleranza religiosa e una critica al rigorismo. Quali sono, secondo te, i messaggi sociali più potenti di questi generi?
Il Taqwacore è emerso in Occidente ed è profondamente legato al modo in cui le società occidentali vedono l’Islam, mentre l’Harami Punk, come sottolineiamo nel documentario, è più incentrato sulla rivendicazione dell’autonomia in un mondo globalizzato e post-coloniale. Entrambe le correnti sfidano non solo l’autoritarismo e il razzismo sistemico, ma anche la mercificazione della religione, dei ruoli di genere e della purezza culturale.
Uno dei messaggi più potenti che inviano è che i musulmani non sono un monolite e che all’interno della fede c’è spazio per il dubbio, la ribellione e la trasformazione.
Qual è il ruolo del linguaggio nella rivendicazione dell’identità delle band Taqwacore e Harami Punk di oggi?
Che gli artisti e le artiste cantino in urdu, arabo, inglese o in un mix di tutti e tre, le loro scelte linguistiche riflettono la loro posizione e i loro interlocutori. È anche un modo per rifiutare di assimilarsi a un’unica narrazione culturale.
La lingua è uno strumento di resistenza.
Per i gruppi diasporici, l’uso della lingua madre può essere un modo per riallacciare i rapporti o affermare il proprio orgoglio; per altri, si tratta di raggiungere un pubblico più ampio pur rimanendo radicati nel proprio patrimonio. In entrambi i casi, la lingua diventa un luogo di costruzione dell’identità e di superamento dei confini.
Il documentario Alla scoperta del punk musulmano di Hajar Ouahbi è disponibile sottotitolato su ARTE — in venti minuti circa, delinea storia, valori e stili di un movimento che non conosce confini — ed è uno dei lavori più interessanti e coinvolgenti che abbia visto negli ultimi mesi.
Il Dispaccio di oggi si conclude qui, mentre ci avviamo verso il cuore della stagione estiva. E tu, hai dei progetti musicali per le prossime settimane? C’è della musica, nel tuo prossimo futuro? Nel mio sì, assolutamente, e conto di raccontartelo presto; se ti va, raccontami il tuo!
A presto, stai bene.
Samantha
Per un riassunto più approfondito della storia del Taqwacore, qui la pagina Wikipedia dedicata.
Dima Punk (Francia, 2019) è un documentario di Dominique Caubet che racconta la difficoltà di rimanere un punk in Marocco; al momento non sembra disponibile in streaming in Italia.
Articolo bellissimo! Grazie.
Pazzesco scorcio su un genere in cui sicuramente mi tufferò per scoprirlo partendo dalla visione del documentario!