#95. Zanana
Il ronzio dei droni nei cieli e nelle orecchie palestinesi; una compilation di beneficienza, l'archivio di una radio e la regina della tecno.
Zanana è un termine arabo che indica il ronzio incessante dei droni nei cieli palestinesi, un’interferenza continua.
Ciao !
Hai avvertito anche tu quel disturbo nelle dirette social, nei video di chi documenta ciò che accade a Gaza e in Cisgiordania? Appena lo noterai, non ti abbandonerà più. E ha un nome: zanana, per l’appunto.
Nel Dispaccio di oggi intercetto il terribile ronzio dei droni da guerra che sorvolano da anni Gaza e la Cisgiordania. C’è poi una compilation di beneficienza per la Palestina, l’archivio di una radio che ne esplora il fermento culturale, la regina della tecno.
Il ronzio della guerra
Lo senti, è lì.
Nelle testimonianze che arrivano da Gaza, come i vlog della vita quotidiana in guerra di Herz e Omar, una costante emerge chiara: il disturbo è incessante, onnipresente, è una parte fissa delle vite dei gazawi, da quando aprono gli occhi all’alba a quando cercano di dormire dopo il tramonto.1
L’interferenza è così invasiva che, alcuni anni fa, è diventato popolare nel mondo dell’attivismo palestinese un gioco che consisteva nel parodiare titoli di film:2 bastava utilizzare la parola “drone” per veder nascere opere come L’amore al tempo dei droni oppure Harry Potter e i droni della morte.
In arabo, il termine zanana (زنانة) indica il ronzio dei droni israeliani che pattugliano il cielo di Gaza, oltre a riferirsi ai droni stessi e, in alcuni casi, agli informatori interni.
Non si tratta di una novità. I droni sono comparsi nei cieli sopra Gaza dal 2000 e, in anni più recenti, anche in Cisgiordania. Israele si vanta del resto di essere un pioniere nel settore, avendo iniziato già alla fine degli anni Sessanta a montare piccole macchine fotografiche su aerei telecomandati, testati all’epoca per controllare il confine con l’Egitto.

I vantaggi dei droni sono facili da immaginare: volano per lunghi periodi, raggiungono altitudini elevate, non hanno bisogno di un pilota e possono aspettare il bersaglio con ore di autonomia, prima di colpirlo. Certo il termine “bersaglio” fa rabbrividire poiché comprende tutto, nella fattispecie anche le persone, senza distinzione alcuna, come l’attualità permette di constatare.
Anche se i droni non sono sempre pronti a sganciare bombe, vengono utilizzati per una ricognizione costante del territorio. Il disturbo continuo che ne deriva può solo essere immaginato da chi vive fuori dalla Striscia; gli apparecchi volteggiano continuamente sopra le teste dei palestinesi per monitorare i territori, fotografare, condurre rilievi e identificare obiettivi, spesso con la conseguenza, per l’appunto, di mietere vittime.3
Il rumore del drone non lascia il nostro cielo né le nostre orecchie.
Maha Shahwan, The Noon Post
La ricognizione ininterrotta si traduce in uno stato di ansia continua. Come spiega Hamdi Shaqura, vicedirettore del Centro Palestinese per i Diritti Umani:
Quando si avvertono i droni, ci si sente nudi e vulnerabili. Il ronzio è il suono della morte. Non c’è scampo, nessun luogo è privato.4
Sono specialmente le generazioni più giovani a pagare il prezzo della costante insicurezza.
Anche prima del 7 ottobre 2023, le ricerche pubblicate da riviste scientifiche come The Lancet evidenziano tra bambine e bambini sintomi come la paura del buio, gli attacchi di pianto e l’enuresi notturna, associabili a uno stato di trauma. Un trauma in cui confluiscono, insieme alle varie atrocità, anche il rumore dei droni che tormenta ciascuna persona sin dalla nascita.
Prestando attenzione, si nota come le trasmissioni live da Gaza degli ultimi mesi documentano in modo massivo la presenza sonora dei droni armati, gli zanana, che sorvolano giorno e notte la popolazione palestinese.
Il ronzio arriva ovunque, anche nelle case; sovrasta la radio e la tv, disturba la ricezione satellitare, invade i telefoni, si diffonde sui social e monopolizza i reportage di chi è sul campo. La dimensione privata scompare, il senso di sicurezza e conforto dettati dal silenzio si annullano.
Inoltre, è diventato a sua volta protagonista di opere di denuncia, come la serie di live streaming Zanana - Sounds of war from the Gaza strip.
Il rumore del trauma è lì, costante, ineludibile, a ricordare ogni giorno ai gazawi che la loro terra è sorvegliata, i loro cieli occupati, la loro vita sotto controllo. E finché zanana continuerà a risuonare nei cieli di Gaza, la pace resterà un sogno lontano, un’eco dispersa tra le onde sonore della guerra.
Quindi, che fare?
Nel suo ultimo libro, il giornalista Gad Lerner — di cui non condivido tutte le posizioni, ma che amo leggere e ascoltare per la sua lucida apertura al confronto, merce piuttosto rara — parla della necessità di utopie.5
La mia utopia è che la musica deflagri così alta da spazzare via il suono delle bombe. Per realizzarla, e non sarà facile né immediato, personalmente credo non si possa fare a meno di allenare la consapevolezza, nonché avere ben limpida in testa l’importanza sopra ogni cosa della partecipazione attiva alla vita sociale e politica.
Prima che sia davvero troppo tardi, prima che vacilli anche la speranza.
Frontiere sonore
Un disco per supportare l’emergenza a Gaza
Il canto dei medici dell’ospedale Al-Awda di Gaza risuona ancora:
We will stay here until the pain is over
We will live here, and we will keep singing
Prende il nome da questi versi la compilation We Will Stay Here. Music For Palestine pubblicata dall’etichetta torinese Love Boat Records & Buttons, i cui proventi sosterranno le attività di Medical Aid for Palestinians.
Nei quattordici brani, la musica diventa cassa di risonanza degli eventi, testimonianza senza filtri della tensione, luce sul dramma e sulla resistenza di un popolo. Melodie, campionamenti, distorsioni, frammenti di interviste si fanno monito della realtà, provando a dare forma sonora all’inaudito.

Così Sara Persico si immerge negli allarmi del conflitto sin dalle prime battute di Phoenix Plain, mentre Collateral Damage di Bawrut attinge alla ritmica folk per avvolgersi in una cupa spirale di angoscia; si susseguono poi nomi come Bono/Burattini, Cosmo & Not Waving e Susu Laroche, per citarne solo alcuni.
Prodotto tra il novembre 2023 e l’aprile 2024, con una copertina firmata dall’artista giordano-palestinese Tala Abu-Nuwar, l’album sprigiona sì il potere dell’arte di raccontare gli eventi, ma anche la volontà di artiste e artisti di alzare la propria voce e smuovere le coscienze.
Se stai leggendo i Dispacci appena pubblicati, prendi nota: su Bandcamp stasera, mercoledì 5 giugno alle 21:00, si terrà il listening party di We Will Stay Here. Music For Palestine. Ci troviamo lì?
I fermenti culturali della Palestina su NTS Radio
La londinese NTS Radio ha risposto allo scoppio della guerra a Gaza raccogliendo nei suoi archivi musica, poesia e letteratura che testimoniano la vivacità e prolificità della scena culturale palestinese, frugando nella storia e indagando nella contemporaneità.
A curare il progetto compaiono i dj della radio, realtà autoctone, artiste e artisti che attingono da diversi generi. Tra i molti contributi, c’è ad esempio quello di Radio Alhara di Betlemme, che propone Through The Storm, In Your Arms, un focus sulla musica sperimentale guidato dall’architetto Yousef Anastas; in Palestine Within Reach, l’esploratrice sonora Christina Hazboun naviga nella storia musicale palestinese tra melodie folk e sperimentazioni, in un excursus avvolgente.
Tutta la collezione è disponibile online, sul sito della radio.
Sama' Abdulhadi è la regina della tecno palestinese
Pochi giorni fa, le strade di Ramallah sono state invase da una manifestazione di protesta in reazione alla strage di Rafah, e un unico grido si alzava:
Perché il mondo resta a guardare?
Sulle stesse strade, nell’ormai lontano 2018, tra i giardini e i palazzi della città si sono accese le telecamere di Boiler Room, per catturare la performance di Sama' Abdulhadi.
Dj e produttrice tecno palestinese, oggi l’artista è famosa in tutto il mondo, e il suo debutto per Boiler Room resta un’esperienza mistica .
Dieci milioni di visualizzazioni dopo, su YouTube è comparso di recente un commento che frantuma il cuore: «Palestinians have the right to dance and enjoy music». Già.
Prima di chiudere il Dispaccio di oggi, un paio di appuntamenti cui tengo davvero parecchio (e spero di annunciarne altri a breve)!
Al Wired Next Fest, domenica 16 giugno, Nicholas David Altea e io terremo una masterclass su Come SEO e social hanno cambiato il modo di fare giornalismo (e anche Wired); l'evento è al Castello Sforzesco di Milano e tutte le info sono qui.
Nella sede di People a Busto Arsizio (VA), lunedì 17 giugno, ci sarà l'ultimo incontro del gruppo di lettura #ilibrideglialtri, per confrontarci su Ogni mattina a Jenin di Susan Abulhawa.


Come sempre, se hai voglia di raccontarmi cose, farmi segnalazioni o proposte, sai dove trovarmi.
E credits a Roberta per avermi regalato We Will Stay Here!
A presto, stai bene.
Samantha
Bruce Stanley, The city-logic of resistance: subverting urbicide in the Middle East city, in “JSTOR”, 2017.
Atef Abu Saif, Sleepless in Gaza. Israeli drone war on the Gaza Strip, in “Rosa Luxemburg Stiftung”, 2014.
Maha Shahwan, Un corvo che gracchia continuamente nei cieli di Gaza (trad. dall’arabo), in “The Noon Post”, 2023.
Jonathan Cook, Gaza: Life and death under Israel’s drones, in “Al Jazeera”, 2013.
Gad Lerner, Gaza. Odio e amore per Israele. Milano: Feltrinelli, 2024.
Che bella questa puntata. Non avrei mai immaginato di considerare i droni militari dal punto di vista sonoro, eppure poi quando lo leggi sembra una cosa così banale che non averci pensato fa strano (e anche un po' spavento).
Sama' Abdulhadi ha delle vibes pazzesche, penso di averla consumata questa BR da quante volte l'ho ascoltata!