#96. Intervista a Samuele Strufaldi & Davorio
Un progetto che è un ponte interculturale tra Italia e Costa D'Avorio, e che ricorda l'importanza indiscussa della musica.
Quando Samuele Strufaldi mi ha raccontato per la prima volta dei suoi progetti musicali circolari, ha subito catturato la mia attenzione.
La musica è uno strumento capace di creare bellezza anche dalle apparenti dissonanze, di andare oltre il semplice intrattenimento e di acquisire un ruolo sociale importante. Il suo viaggio in Africa occidentale racchiude tutto questo e molto altro.
Dunque, questo è un invio speciale dei Dispacci dedicato agli incontri e, dopo l’incredibile intervista ai FusaiFusa, è tempo di far rotta verso la Costa d’Avorio. Andiamo?
Perché la musica è uno strumento di vita
Insieme a Samuele Strufaldi, scoprire un progetto che è un ponte interculturale tra Italia e Costa d’Avorio, e ricordare come la musica sia parte essenziale della vita di ogni giorno.
La musica è «uno strumento di vita quotidiana», accessibile a ogni persona e indispensabile per vivere appieno ogni momento. Non è solo una questione di performance, bensì una parte integrante della nostra esistenza. Ecco l’essenza primordiale della musica, nonché il cuore del progetto Davorio.
A raccontarmi di più è il suo ideatore, Samuele Strufaldi. Compositore e pianista jazz formatosi al conservatorio, con un master in composizione contemporanea che lo ha portato a Londra per un anno, Strufaldi ha un percorso eclettico e affascinante. Oltre alla musica, ha lavorato anche come acrobata del circo, esplorando la relazione tra musica e corporeità, un tema centrale nelle sue ricerche.
Il progetto Davorio si concentra su un periodo trascorso a Gohouo-Zagna, nella Costa d’Avorio occidentale. Lì, Strufaldi ha suonato con artisti locali e registrato suoni insieme ai musicisti Boris Peirrou, Francesco Gherardi e gruppi Gueré locali, creando un ponte culturale e musicale unico nel suo genere.
Come nasce il progetto Davorio?
Nel 2019, tramite un collega percussionista, ho conosciuto Boris Peirrou, musicista della Costa d’Avorio, a cui ho proposto un progetto. Volevo fare un viaggio di ricerca musicale in Africa, ma ero terrorizzato dal rischio post-colonialista di appropriarmi deliberatamente del materiale.
Quindi ho pensato a un progetto circolare: andare al villaggio, fare ricerca, studiare musica tradizionale, registrare la gente locale e poi fare un disco i cui profitti sarebbero rientrati al villaggio stesso.
Ho abbozzato questa idea di circolarità, che ha preso un po’ di tempo per essere affinata: il rischio di costruire cose inutili o imporre la propria opinione è sempre dietro l’angolo!
Alla fine, è emerso il progetto della famiglia di Boris di costruire uno spazio comunitario all’interno villaggio, ed era perfetto!
L’approccio che evita il rischio di appropriazione culturale è parecchio interessante.
Per me è diventato una sorta di miraggio: sono molto appassionato e curioso, cercavo una formula per poter continuare una ricerca personale sul territorio.
Mi piace costruire ponti interculturali, creare legami con le persone e condividere progetti piuttosto che alimentare il mio piccolo orticello di compositore.
L’idea infatti è di continuare anche in altri territori.
Il disco si può ascoltare su Bandcamp, e vedo che sono sedici tracce.
Il disco è organizzato come Quadri di un’esposizione di Musorgskij. Ci sono degli interludi, registrazioni senza trattamento, crude come lo ho prese nel villaggio, un field recording del viaggio dove si ascoltano bambini che giocano, gente che suona, una persona che canta una filastrocca, sono dei piccoli frammenti non elaborati. Le tracce arrivano dopo questi interludi e sono delle composizioni realizzate intorno ai materiali registrati.
Brani che tu componi assorbendo la tradizione musicale del territorio.
Più che fare un disco di omaggio alla tradizione africana, come spesso accade nel jazz, integrando elementi o provando a risuonarli, ho cercato di rappresentare quella collisione che accade quando si incontra un’altra cultura.
Alcune tracce le ho scritte partendo dal fraintendimento del tempo, che spesso noi europei facciamo. Lì non solo il tempo musicale, ma anche il tempo umano è diverso.
Il fraintendimento tra culture è la base di questi brani, integra la fertilità dell’incomprensione tra le culture.
C’è il tentativo di fare un bozzetto di quello che è stato l’incontro con le persone in questo territorio, nel villaggio, ci sono le voci delle persone che sono state con noi, un vero album fotografico. Con tutto ciò che nasce poi dal sogno di questo incontrarsi, vivere cose che non si capiscono, che ci affascinano.
E come ti sei sentito dopo questo incontro?
Dopo l’incontro mi sono sentito frastornato, perché non è stato per niente un viaggio facile. Incontrarsi con una cultura diversa è sempre scioccante, perché devi fare rinunce e rivedere tante certezze per trovare un territorio comune.
Inoltre, è stata anche difficile la presa di coscienza dei danni del colonialismo in quei territori.
Qual è stato l’aspetto che più ti ha colpito?
A parte il rapporto tra le percussioni e la danza, e più in generale il rapporto tra musica e quotidianità, il fatto che la musica è integrata nell’attività sociale del villaggio in una maniera molto più profonda rispetto a noi: qui la musica è un’attività ricreativa in cui c’è sempre una grossa separazione tra il musicista e lo spettatore.
Lì è proprio una parte integrante dei riti e delle cerimonie, funerali e matrimoni non si possono officiare senza la musica.
La musica è uno strumento di vita.
Inoltre, come dicevo, è quasi sempre collegata alla danza: la musica è danza e si lega alla motricità dei corpi.
Ed è molto bello; ci sono i musicisti, certo, ma tutti partecipano alla collettività musicale, cantando, suonando, ballando. Qui la musica si lega molto all’elitarietà e alla performance, cosa che la allontana moltissimo dalla pratica quotidiana.
E poi la cosa che in assoluto mi ha conquistato di più, anche per i riferimenti con gli studi psicologici, sono le maschere. Insieme alla musica, le maschere escono dalla foresta sacra e impersonificano delle divinità, sono dei ponti con una sorta di inconscio collettivo ed esorcizzano le nevrosi collettive. La maschera è totemica, ha questo peso che arriva dalle origini della civiltà, i visi più antichi conosciuti: dove permane ancora un rispetto delle tradizioni, c’è ancora tanta potenza.
Oggi, Samuele Strufaldi è impegnato in numerose attività, tra cui un nuovo progetto circolare in Libano. In collaborazione con Music and Resilience dell’associazione italiana Prima Materia, l’obiettivo è lo sviluppo di risorse musicali nei campi profughi libanesi. Brani del repertorio tradizionale arabo si alterneranno ad altri arrangiati dagli operatori, nel nome della musica come mezzo di connessione culturale, essenziale e universale.
È possibile conoscere in modo più approfondito, e anche sostenere, le attività del progetto Davorio su Gofundme: Davorio: Help us to build a library in Ivory Coast.
Il Dispaccio di oggi si conclude qui: che ne pensi dei ritratti sonori del progetto Davorio? Conosci delle realtà simili dove musica e vita si intrecciano in modo indissolubile? Scrivimi, sai dove trovarmi.
A presto.
Samantha
MI piace molto quando Samuele Strufaldi parla di collisione fra culture, e anche il concetto di musica come attività ricreativa collettiva.
Ottimo lavoro! Davvero speciale.