#66. Natura (e intervista a Tarun Nayar)
Tarun Nayar racconta la sua musica nella e con la natura, la passione di John Cage per i funghi, tre consigli declinati in verde. Negli Accenti c'è Barbara Bernardini, tra orti e ispirazione.
Ciao !
Oltre vent’anni fa, l’artista Mileece inizia a sintetizzare la bioenergia delle piante, trasformandola in suono. Definisce il suo lavoro “sonificazione estetica della natura”, un linguaggio comprensibile alla sensibilità umana, una via per il dialogo tra organismi viventi spesso troppo distanti.
Nelle ultime settimane, sono tornata ad ascoltare il paesaggio sonoro naturale con attenzione. Così, nel Dispaccio di oggi chiacchiero con Tarun Nayar della musica nel mondo vegetale e racconto di quando John Cage si è presentato a Lascia o raddoppia? come esperto di funghi. Ci sono poi un disco per le piante, un film sui suoni della foresta e un articolo su come le creature della natura comunicano tra loro.
Gli Accenti ospitano Barbara Bernardini, che ha scritto il libro Dall’orto al mondo. Piccolo manuale di resistenza ecologica (Nottetempo) e cura la newsletter
La biomusica di Tarun Nayar
Il suono è in ogni cosa, in ogni particella infinitesimale nello sconfinato mosaico dell’universo. E la natura, in tal senso, è una continua fonte di incanto.
Ne ho parlato con Tarun Nayar, musicista e sperimentatore che fonde all’unisono nei suoi progetti musica elettronica e biologia, dando vita non solo a ipnotiche meraviglie, ma anche a un approccio consapevole al mondo vegetale.
Come descriveresti la relazione che intercorre tra musica e natura?
La musica è natura. E la natura è musica. La scienza ci dice che l’universo visibile si è evoluto dal cosmo primordiale grazie a gradienti di pressione — oscillazioni — nello spazio.
Letteralmente, la vibrazione e il “suono” sono la fonte di tutto ciò che vediamo intorno a noi e di tutto ciò che sperimentiamo. Forse per questo motivo, il suono può anche essere una porta di ritorno alla natura. Un punto di ancoraggio che aiuta le nostre menti distratte a ritrovare la strada di casa.
Mi piace fare musica nella natura, con la natura. C’è qualcosa di meravigliosamente circolare e soddisfacente nel collaborare con l’ambiente.
Il tuo lavoro con i funghi (e con altre creature vegetali) ha dimostrato che i cambiamenti bioelettrici generano musica. Puoi spiegare come funziona?
Per chiarire, non sono io che l’ho scoperto. È dagli anni ‘70 — poco dopo la pubblicazione di La vita segreta delle piante (di Peter Tompkins e Christopher Bird, Il Saggiatore, nda) — che si sperimenta l’idea di utilizzare la bioelettricità nella composizione musicale, utilizzando molte delle stesse tecniche usate nel libro per “comunicare” con le piante. Ci sono infiniti modi per prendere dati dalla natura e convertirli in arte. Nella maggior parte delle mie creazioni, utilizzo tecniche semplici per convertire le variazioni di impedenza nei materiali biologici in variazioni di tensione di controllo (pitch) e di gate / trigger (on-off) sui sintetizzatori. Michael Levin definisce la bioelettricità il “collante cognitivo” degli organismi. Quando qualcosa vive e cresce, il suo campo bioelettrico cambia: alcuni elementi di questo cambiamento possono essere catturati e trasformati in cose che possiamo ascoltare. Trovo incredibilmente stimolante usare tutto ciò come strumento compositivo per fare musica — e usare questa musica per ricollegare le persone agli ambienti naturali che generano questi dati. Per essere molto chiari, i funghi e le piante non stanno “facendo musica”: stanno solo facendo le loro cose e vivono. Noi stiamo facendo musica con i loro processi vitali.
Quali intuizioni (e forse lezioni di vita) possiamo trarre dalle tue ricerche?
Ho imparato che questi approcci compositivi relativamente semplici, se condivisi nel giusto contesto, possono portare a esperienze connettive incredibilmente potenti.
Faccio la maggior parte dei miei concerti all’aperto, nella natura, e li combino con il foraging e la meditazione. L’aggiunta di musica a questo mix, musica derivata da ciò che abbiamo appena raccolto, sembra prendere un’attività umana molto semplice e naturale e renderla trascendente.
Dopo la chiacchierata con Nayar, ho diverse certezze: la riscoperta sonora del mondo naturale è una mappa in definizione di universi ancora inediti, consente di tenere la mente allenata a profondità e complessità verso i fenomeni naturali (e la vita in generale). Soprattutto, la voce di piccole creature, tradotta in musica che è possibile percepire e ascoltare, traccia la via per una maggiore sensibilità in un periodo di crisi ambientale e climatica. È davvero, come sostiene lui stesso, “una porta di ritorno alla natura”.
(Un consiglio: segui Tarun Nayar su Instagram, non te ne pentirai).
Di funghi e John Cage
Un frullatore, delle rose, un registratore a nastro, un giocattolo di gomma e altri ammennicoli occupano la scena. Quando «il giovane americano dalle lunghe gambe e dal sorriso aperto», come lo descrive La Stampa, li tocca con gesti fermi e puntuali, quasi danzando tra loro, accade qualcosa: tra i segni invisibili di una partitura immaginaria, nasce una sinfonia delle cose, una musica concreta.
Come ogni giovedì, l’Italia si è data appuntamento davanti alla tv per guardare Lascia o raddoppia?. La sera del 12 febbraio 1959, assiste però a otto minuti di avanguardia. L’opera è Water Walk e il musicista è John Cage.
Il compositore debutta una settimana prima nella trasmissione di Mike Bongiorno: si trova a Milano e pare non abbia un soldo. Sono gli amici Luciano Berio, che lo ha invitato a lavorare allo Studio di Fonologia della Rai, e Umberto Eco a convincerlo a partecipare e presentarsi come esperto di una delle sue materie preferite. La musica? No: i funghi.
Cage è a Lascia o raddoppia? per cinque puntate, dal 18 gennaio al 26 febbraio, e si congeda incassando i cinque milioni di lire, più spiccioli, del montepremi. La vicenda della partecipazione di uno dei più importanti compositori del ventesimo secolo al programma è un evento storico ammantato di leggenda, tra nastri distrutti e scarse testimonianze negli archivi fotografici.
«Allievo di Schönberg, considerato una delle figure più interessanti della musica moderna, ha scelto le vesti del micologo, dell’esperto di funghi», racconta il Corriere della Sera, puntualizzando che, oltre ad affrontare le domande, eseguirà dei brani. La musica, nemmeno a dirlo, instilla perplessità e ironia tra stampa e pubblico: viti e bulloni tra le corde del piano per Amores, la performance coreografica di Water Walk, il contrappunto di suoni ambientali di Sounds of Venice sono visti e ascoltati da una ventina di milioni di telespettatori a serata. La massa di pubblico del giovedì incontra, per lo più inconsapevolmente, la musica d’élite; l’avanguardia esce da accademie e sale private per intrufolarsi nei salotti, anche nei piccoli paesi della provincia.
Nel frattempo, il Cage concorrente rivela al mondo la sua conoscenza enciclopedica dell’universo fungino. Il suo interesse nasce durante la Grande Depressione — come esigenza di mettere qualcosa sotto i denti — e continua per tutta la vita, sfociando ad esempio nel poema Mushrooms et Variationes; una passione mai sopita, neppure quando rischia di morire dopo aver malauguratamente mangiato un esemplare velenoso.
Nell’agosto 1992, il compositore Sylvano Bussotti scrive un necrologio per la scomparsa dell’amico, e ricorda la partecipazione televisiva del 1959, quando si è presentato al grande pubblico «snocciolando una miriade di nomi latini delle più rare famiglie di funghi, velenosi e non».
Un decennio dopo la sua apparizione, raggiunta ormai la fama, la Rai gli dedica un programma monografico in seconda serata; venti anni dopo, i giornali parlano del progetto ideato, e mai realizzato, di far suonare gli alberi a Monte Stella d’Ivrea: sonorizzare un bosco, attraverso degli amplificatori, per ascoltare i suoni di foglie e arbusti, avvicinando chiunque lo visitasse sia alla musica sia all’ambiente.
Negli ultimi anni, e soprattutto in tempi recenti, le sperimentazioni che allacciano musica e natura sono molteplici: grazie alla tecnologia, è possibile intercettare le frequenze di processi biologici e tradurle in musica.
Chissà se John Cage si sarebbe avventurato in questa selva di suoni.
Tre cose
🎶 Mother Earth’s Plantasia, il concept album botanico
È il 1976 quando Mort Garson — compositore prolifico, genio dell’elettronica, tra i primi sperimentatori al fianco di Robert Moog — pubblica un disco per le piante e per chi le ama, come specifica il sottotitolo, oggi oggetto di culto.
📽️ Ascoltare Il respiro della foresta
La vita delle monache tibetane del monastero Yarchen Gar, immerso in una cornice naturale tanto meravigliosa quanto ostile, è raccontata nel documentario Il respiro della foresta, di Jin Huaqing.
📰 Le piante parlano, e anche parecchio
Le piante hanno un sistema di comunicazione complesso, che intreccia ultrasuoni, ormoni, impulsi elettrici. In un articolo del National Geographic c’è tutto: Plants can talk. Yes, really. Here’s how.
Conversazioni con chi ascolta, osserva, immagina, scrive:
Barbara Bernardini, Braccia Rubate
C’è una newsletter che sbuca nella casella di posta ogni novilunio e plenilunio, colma di poesia e profumi della terra: è
ed è la creatura di Barbara Bernardini, che ha anche scritto un libro di cura e ispirazione, Dall’orto al mondo (Nottetempo).Eccoci qui, con la domanda che di solito mette in crisi: chi sei, cosa fai nella vita?
È vero, è una domanda che mette in crisi perché non c’è mai una risposta vera, o almeno completa. Comunque: vivo da sempre nello stesso posto – i miei traslochi si muovono in un piccolo quadrato che ha pochi chilometri di lato –, quasi sempre in campagna, non ho più intenzione di spostarmi, ho piantato degli alberi, voglio rimanere qui.
Per lavoro organizzo corsi di editoria e scrittura, per minimum fax, dove sono arrivata più di sedici anni fa per occuparmi di segreteria di produzione del settore audiovisivo. Prima, ho studiato grafica e fotografia, sociologia, eventi culturali: ognuna di queste aree mi pareva una strada possibile da percorrere, ma alla fine non ne ho imboccata nessuna. Nel mezzo di questi sedici anni, invece, ho fondato con delle amiche un’agenzia letteraria, in cui mi occupavo di un’edicola digitale – la prima newsletter che ho curato era legata all’edicola –, e siamo state molto brave nel farla fallire; ho passato degli anni da disoccupata, o quasi: mille incastri che non davano uno stipendio, poi sono tornata al mio lavoro precedente, anche se nel frattempo era cambiato un po’ tutto, me compresa.
Ho l’impressione di non avere una passione che mi rappresenti, qualcosa con cui riassumermi, mi pare di aver lasciato strada facendo mille pezzi incompleti di cose iniziate e mai davvero approfondite, ma ora alcuni di questi pezzi si stanno rimettendo insieme: la scrittura, nei primi anni duemila scrivevo molto, sul mio blog e su alcune riviste letterarie, ma poi internet è cambiato e, insieme, la mia pigrizia mi ha ancora una volta fatto abbandonare qualcosa senza che nemmeno me ne accorgessi; la fotografia, con cui sto riprendendo confidenza; le piante, l’orto, le radici contadine: quest’ultimo pezzo viene da più lontano ma c’è sempre stato, sotterraneo, e finalmente si è ripreso il suo spazio.
Braccia rubate è una newsletter che ho incontrato per caso sul mio cammino, e che non ho più lasciato: com’è nata? C’è un episodio particolare, un momento che ti è rimasto nel cuore?
, come tutte le cose che alla fine mi hanno appassionata di più, è nata per caso e, come ti dicevo, è riuscita a rimettere insieme pezzi che avevo abbandonato per pigrizia, distrazione, semplice inerzia.Il lockdown della primavera 2020 è stato un periodo che mi ha permesso di fare ordine, in testa, ed è stato un isolamento a suo modo fruttuoso, positivo; mentre il periodo successivo per me è stato davvero complicato, ho sentito la necessità di riallacciare i legami, di crearne di nuovi, di raccontare e ascoltare, e il modo che conoscevo era scrivere, e usare internet come una rete, appunto, un insieme di nodi, non una piattaforma per amplificare qualche messaggio – non credo poi di avere “messaggi” – ma un reticolo di aperture, ciascuna intima e personale.
Le newsletter mi sembrano esattamente questo: lettere individuali ma moltiplicate su una piccola comunità.
Un giorno, lavorando a un corso con
, le ho raccontato una serie di idee, tutte piuttosto irrealizzabili e folli. Fra queste, una newsletter su degli esercizi di fantastica (nel senso che dà Rodari al termine), che sarebbe dovuta partire a ogni cambio di luna. Ogni numero avrebbe avuto un’introduzione sull’orto: una specie di calendario di Barbanera che raccontava i lavori nel campo, legati alle lune, che avesse la sola funzione di dare una scansione temporale ai vari numeri, il cui cuore dovevano rimanere le tracce per gli esercizi di fantastica scritte da vari ospiti. È finita che Valentina, che è bravissima nel ruolo di “spingitrice di idee matte”, mi ha convinta a provarci, e che quella parte sull’orto mi divertiva troppo per lasciarla ai margini – e forse mi divertiva proprio perché nata ai margini – e pian piano è diventata centrale. Il momento che mi è rimasto nel cuore è quando Maria Claudia Ferrari Bellisario mi ha scritto per propormi un pezzo per la newsletter e, qui credo di aver avuto finalmente un’intuizione giusta, le ho proposto di occuparsi dell’edizione del plenilunio. Lei ha una sensibilità profonda, dei gusti letterari, e botanici, eleganti e raffinati. Ha accettato, e ora a ogni luna piena parte Sentieri, l’edizione curata da lei.Ti racconterei anche qualcosa sull’erbario che sta girando per l’Italia: a ogni passaggio accade qualcosa di speciale, ma questa ce la teniamo per la prossima volta!
C’è una recensione stupenda del tuo libro, Dall’orto al mondo, firmata da Gianni Montieri: lo definisce «un libro felice» (lo è, eccome). Quanta felicità può darci ritrovare l’armonia con il mondo naturale?
Seguire i tempi di un orto — l’attesa per la semina, per il germogliare, per i fiori, i frutti, la raccolta, ma anche la fine di una coltivazione, la morte di una pianta —, con la sua lentezza e gli imprevisti e tutto ciò che sfugge al controllo, credo mi sia stato d’aiuto nell’imparare a riscoprire i miei tempi e le mie debolezze, e a rispettarle.
C’è anche qualcosa di più: è facile rimanere incantati davanti a un elemento naturale prorompente, a un territorio dalla bellezza straordinaria: un ghiacciaio, una montagna, una foresta incontaminata, un vulcano in eruzione, ma qualcosa di così enorme rimane sempre un’alterità.
Un orticello, un giardino, un alberello comune, le erbe spontanee che crescono lungo la strada, un animale che abbiamo visto mille volte distrattamente anche in città in qualche modo rappresentano quel territorio che abbiamo in comune con la “natura”, quelle zone di collaborazione, di reciprocità, di familiarità: a modo loro, se ci prestiamo attenzione, possono colmare quella mancanza che sentiamo, quel senso di straniamento dovuto alla separazione forzata col resto del mondo.
Anche perché quando parliamo di separazione dalla natura, credo che la questione sia separazione anche dalla nostra natura di animali, di corpi che hanno dei tempi e dei bisogni inascoltati.
Qual è la tua colonna sonora ideale?
Il rumore che vorrei sempre come sottofondo, che potrebbe non stancarmi mai, è quello dei boschi di faggio. I faggi hanno queste foglie ovali, flessibili, dentellate, sembrano progettate per suonare al vento. In primavera sono più tenere e più minute, e il suono va in crescendo con i mesi, in estate piena col vento producono il rumore di un fiume che scorre, sembra un rimedio per lenire l’ansia del caldo. In autunno, man mano che si seccano, quel suono dolce diventa uno scrosciare, da flusso d’acqua a scricchiolio di fuoco. I faggi si spogliano solo a inverno inoltrato, così non è mai un silenzio assoluto, ma un sibilo sempre puntellato dalla caduta delle foglie, da qualche ramo che si spezza sotto il peso della neve, e poi suoni sempre più lievi, parentesi dentro parentesi (mi piacciono le parentesi, sono le cose bisbigliate a cui tengo di più).
Ma tu forse mi chiedevi della musica: non saprei scegliere delle canzoni ideali, se penso ai temi del libro, partirei da I’m So Tired dei Fugazi, perché è forse da quella stanchezza così assoluta che ho ripreso a curare l’orto; Hotel Last Resort dei Violent Femmes, perché parla di inerzia, di lasciare che le cose cambino senza agire, di non-fare, di sottrarsi all’intrattenimento e di riappropriazione del tempo, e poi di zappe, concime, letame e rastrelli, come metafore ma ci va bene lo stesso, e infine perché c’è la chitarra di Tom Verlaine, che come dice Patti Smith (*) suona come il pianto di uccellini azzurri; infine Gratitude dei Beastie Boys, perché è una forma di gratitudine che mi piace, non pacifica ma arrabbiata: quel riconoscere la fortuna, con gratitudine appunto, di scoprirsi ancora capaci di non essere d’accordo, di pensare altro, senza questa sensazione, forse, non avrei mai trovato il coraggio di credere che anch’io avessi qualcosa da dire, e poi scriverlo.
Invece, se dovessi scegliere la colonna sonora adatta al momento che amo di più nell’orto, il tramonto e la luce che si porta dietro, ti direi che quel momento suona come Postcard From Italy, o forse come l’intero album Gulag Orkestar, dei Beirut: una nostalgia festosa, scintillante ma che contiene qualcosa che fa male, qualcosa che hai perso o stai per perdere, un giorno che si chiude e appare bellissimo proprio in quegli ultimi momenti in cui puoi viverlo. In modo speculare, la canzone che racconta l’alba (anche l’alba nell’orto, o fra gli ulivi, è stupenda, se non fossi così pigra sarebbe anche un evento meno raro), e quel momento in cui una notte finisce per sempre, è ancora dei Violent Femmes, ed è Good Feeling.
(*) Patti Smith ha sempre ragione, è incontestabile, credo poi che pochi come lei abbiano saputo mettere le forze e gli elementi della natura in musica in modo così preciso: avrei dovuto inserirla nella lista, sarebbe stato giusto, ma non so scegliere solo pochi brani quindi ci va tutta intera la sua discografia. Doveva esserci anche nel libro, nel capitolo sulle zuppe, Patti Smith e la storia di quando pelando le patate ha pensato a People Have The Power, ma poi ho deciso di non metterci una deviazione sulla deviazione alla deviazione dal discorso principale, come sto facendo qui (scusa).
Questo è il momento in cui consigli dei libri, vecchi o nuovi, che pensi possano aiutarci a guardare il mondo in modo diverso.
Due titoli che mi hanno aiutata non solo a guardare il mondo ma il nostro stare al mondo in modo diverso sono Come pensano le foreste, di Eduardo Kohn (Nottetempo), e L’ordine nascosto, di Merlin Sheldrake (Feltrinelli). Un libro per allenare lo sguardo è Verso la foce di Gianni Celati (Feltrinelli). È proprio un manuale per imparare a guardarsi attorno, a leggere la luce, a scovare la bellezza. E poi, L’altro mondo di Fabio Deotto (Bompiani), che in fondo è sempre un bellissimo reportage di viaggio, ma che è dedicato ai limiti cognitivi che ci impediscono di vedere come il mondo in cui viviamo è già cambiato: riconoscere quei limiti, permette anche di superarli. Su come cambiare sguardo anche sul nostro futuro nel mondo, ti direi Primavera ambientale di Ferdinando Cotugno (Il Margine), che è una specie di ponte fra disperazione e speranza, fra solitudine e azione collettiva (e quando dico ponte penso ad Alex Langer, perché mi pare che il libro di Cotugno si inserisca in quel modo lì, limpido e onesto, di raccontare l’ambientalismo); poi Favole del reincanto di Stefania Consigliere (DeriveApprodi), perché prima ancora di pensare a cosa possiamo fare per cambiare il sistema con cui stiamo al mondo, bisogna credere che un’alternativa sia possibile.
Sull’orto, sul rivalutare la pratica apparentemente banale degli zappaterra, i miei tre libri di riferimento sono L’orto di un perdigiorno di Pia Pera (Tea), per la poesia; La rivoluzione del filo di paglia di Masanobu Fukuoka (Libreria Editrice Fiorentina), per il pensiero profondo; Le pianure di Federico Falco (Sur), per il rapporto fra scrittura e coltivazione.
Sul potere trasformativo e rivoluzionario dell’agricoltura, due libri recenti: Restano solo sessanta raccolti di Philip Lymbery (Nutrimenti), e Terra viva di Vandana Shiva (Aboca Edizioni). E uno che invece ha un secolo e mezzo: Fra contadini. Dialogo sull’anarchia (Ortica Editrice), un libretto di Errico Malatesta che mi è prezioso e caro, perché credo che la verità più profonda sulla terra – la terra da scavare, da seminare, da coltivare, intendo – sia che è lì che sta la nostra libertà.
Per il Dispaccio di oggi è tutto.
Prima di salutarti, però, c’è un appuntamento! Nei prossimi giorni, come ogni anno, sarò al Salone del Libro di Torino: se ti va di incrociarci, presentarci, fare due chiacchiere, sentiamoci!
Nel frattempo, se non dormi, se vorresti suonare insieme ai funghi, se pensi che parole e musica possano e debbano cambiare il mondo: scrivimi.
A presto,
Samantha
Stupenda questa puntata di Dispacci, quante scoperte!