#91. Resistere
Un verso di Mahmoud Darwish per fare musica come atto di resistenza contro l'oppressione; come Denise Ho, i Café Tacvba e Kamilya Jubran.
Mi capita di frequente di domandarmi quanto abbiamo presente il concetto di libertà; mi capita in un periodo storico particolarmente drammatico, ma anche constatando l’individualismo che si insinua nel quotidiano, fino a sfociare nella violenza di parole, gesti e azioni.
Ciao !
Domani è il 25 Aprile, il giorno della Liberazione dell’Italia dall’occupazione nazifascista, il giorno che sarà sempre lì a ricordarci il valore della lotta per un futuro libero dall’oppressione, dalle discriminazioni, dalla censura. In poche parole, il valore della libertà.
Nel Dispaccio di oggi, torna un verso del poeta Mahmoud Darwish; le frontiere sonore guardano all’attivismo di Denise Ho, alle canzoni di protesta dei Café Tacvba e all’incanto di Kamilya Jubran.
La paura che hanno i tiranni delle canzoni
In un recente reportage dal deserto del Negev, la giornalista Lucia Goracci osserva che «La guerra fa male sempre agli stessi».
È la premessa fondamentale, l’unica possibile in un mondo in cui decine di conflitti e l’imposizione di regimi autoritari e repressivi mettono a rischio un numero esorbitante di vite. Sembra così difficile, per non dire impossibile, associare alla catastrofe la musica, eppure basta soffermarsi un istante sulle vere ragioni che spingono le persone a cantare o imbracciare uno strumento per sciogliere la complessità.
Si fa musica non solo per intrattenimento, ma anche per trasmettere la memoria alle generazioni future, per affermare e rivendicare la propria identità, specie quando si fa parte di una minoranza, per costruire un’idea di collettività.
Diventa allora semplice inserire la musica in un contesto di lotta all’oppressione, di rivendicazione della libertà. Canzoni e melodie si fanno simbolo, strumento di aggregazione, incitamento e speranza: la solitudine scompare, il male non è più invincibile.
Alla vigilia del 25 Aprile, è facile ricordare ad esempio che la Resistenza italiana contro il nazifascismo ha avuto un suo inno e una sua colonna sonora.
Le dita sono intirizzite dal freddo mentre annota sul taccuino sgualcito i versi di una canzone abbozzata tempo prima, quando ancora era uno studente universitario. Nel dicembre del 1943, Felice Cascione, nome di battaglia u’ megu (il medico), è accampato sulle colline del Ponente ligure insieme ai partigiani della sua brigata. Le parole fluiscono sulla carta dopo aver ascoltato una musica accennata alla chitarra da Giacomo Sibilla, detto Ivan, un giovane che dalla campagna di Russia è tornato con una melodia in testa: le struggenti note di Katjuša del compositore sovietico ebreo Matvej Blanter, con il testo del poeta Michail Isakovskij.
Quelle pagine esistono ancora, sono custodite all’Istituto Storico della Resistenza di Imperia, in una via che porta proprio il nome di Cascione, ucciso dai fascisti poche settimane dopo aver dato alla luce l’inno della Resistenza, prima che arrivasse Bella ciao a scaldare i cuori: Fischia il vento.
— Le canzoni dell’avvenire, dal Dispaccio #64. Libertà
Oggi, sono innumerevoli gli esempi di canti di resistenza, che arrivano da ogni parte del mondo.
Nei miei pensieri risuona ad esempio la voce di Alaa Salah, la giovane donna avvolta in abiti bianchi che guida con il suo canto le folle oceaniche di Khartoum, nel corso delle proteste anti-governative in Sudan. È stata soprannominata Kandaka, che significa “regina nubiana”, e la sua voce è una delle più rilevanti nelle lotte del paese.
Ancora, le note al pianoforte di Aeham Ahmad risuonano per le strade di una Siria ridotta in macerie; i suoi video rivelano al mondo la devastazione di Yarmouk, il campo profughi palestinese a poca distanza da Damasco, e di un intero paese.
Nell’attualità più stretta, dalla Palestina — e dalle voci palestinesi che si levano in ogni parte del mondo — la disperazione di una guerra senza fine è raccontata attraverso canzoni e poesie che riecheggiano nelle strade durante le manifestazioni contro la guerra a Gaza.
Tra le tante, troppe, storie, colpisce quella di Lubna Alyaan, una violinista adolescente che ha incantato chiunque con il proprio talento. Non ha avuto il tempo di suonare per la libertà: le bombe l’hanno uccisa a Nuseirat, nel sud della Striscia, e il suo violino resterà per sempre in silenzio.
Il ruolo di artista e attivista si mescola talvolta fino alle estreme conseguenze, a dimostrare «la paura che hanno i tiranni delle canzoni», come scrive il poeta Mahmoud Darwish in Su questa terra. E i casi di resistenza accompagnati dalle note sono innumerevoli, costellano la storia e sono diffusi in tutto il mondo.
Fino a che ci sarà oppressione, da qualche parte si leverà un canto di protesta, sempre più fragoroso, fino a zittire — e questa è una speranza — le grida di ferocia, i sibili delle bombe, la paura.
Frontiere sonore
La musica di Denise Ho per i diritti umani a Hong Kong
Quando la Rivoluzione degli ombrelli viene repressa con la forza e tra decine di arresti, la furia assale Denise Ho. Del resto, il ruolo di artista e attivista, più spesso spesso di quanto si pensi, è indissolubile. Come nel suo caso.
Naturalizzata canadese, Ho è impegnata nei movimenti pro-democrazia e nella rivendicazione dei diritti per la comunità LGBTQ+ a Hong Kong; è particolarmente invisa al governo cinese, che l’ha piazzata nella sua lista nera dalle proteste di dieci anni fa.
È stato proprio essere testimone di quei giorni inquieti, come spesso racconta Ho, ad aver accresciuto in lei la consapevolezza del proprio ruolo, della necessità di fare qualcosa, di mettere la propria voce al servizio di una causa e di un ideale in cui credere, nonostante le difficoltà.
Le canzoni di protesta dei messicani Café Tacvba
La musica di protesta ha una lunga tradizione nei paesi dell’America Latina e meridionale. E non potrebbe essere altrimenti, dopo secoli di dominazioni straniere, regimi oppressivi, disparità sociali, crisi economiche e corruzione politica. La musica, in questo senso, incarna la speranza per un futuro migliore e la forza di abbattere qualsiasi barriera ne ostacoli la creazione.
In tempi recenti, anche le disastrose conseguenze della crisi climatica si sono aggiunte alla lotta.
Nelle canzoni del Café Tacvba, band messicana, l’urgenza del rispetto per le risorse del pianeta e della loro conservazione è un tema di primaria importanza, ma non solo. I testi denunciano anche la lotta delle comunità indigene contro la marginalizzazione sociale, che interseca la crisi ambientale, e l’esproprio delle loro terre.
L’incanto inossidabile di Kamilya Jubran dalla Palestina
I Sabreen sono spesso definiti pionieri della ricerca musicale arabo-palestinese contemporanea. Non c’è da stupirsi se rappresentano una tappa fondamentale nella carriera musicale di Kamilya Jubran, cantautrice e polistrumentista, voce simbolo della musica palestinese nel mondo.
La loro musica nasce in equilibrio perfetto da strumenti tradizionali (come l’oud e il qanun, suonati anche da Jubran, ma anche buzuq e kaval), contrabbasso, violino e violoncello. Su questo tappeto sonoro si sviluppano testi in grado di raccontare la realtà palestinese, la sofferenza di un intero popolo.
Nata ad Akka, in Israele, da genitori palestinesi, Jubran cresce in una famiglia dove la musica si respira ogni giorno (il padre è un costruttore di strumenti musicali); dai primi anni duemila si trasferisce in Europa e da un decennio è direttrice di Zamkana, organizzazione no profit che supporta progetti musicali innovativi.
C’è una frase di Sandro Pertini che afferma: «La Costituzione è un buon documento; ma spetta ancora a noi fare in modo che certi articoli non rimangano lettera morta, inchiostro sulla carta. In questo senso la Resistenza continua».
Mi ricorda quanto sia fondamentale ripudiare la violenza, in ogni sua forma, anche la più sottile, come azione e come idea. E mi ricorda quanta strada ci sia ancora da fare, quanto impegno da profondere ogni giorno, soprattutto oggi, alla vigilia del 25 Aprile.
Il Dispaccio di oggi finisce qui: sorridi, scendi in piazza, pensa, canta anche per me.
A presto, stai bene e scrivimi.
Samantha
Wow quanto spunti! Uno più bello dell'altro. I café Tacvba poi, eccezionali. Che energia!
Grazie Samantha per questa bella carrellata sonora di libertà. Tra tutti mi sento risuonare tantissimo con le chitarre dei Café Tacvba, che piacevole scoperta!